PAOLA CARIDI, Hamas. Dalla resistenza al regime (Feltrinelli, 2023)
SOMDEEP SEN, Decolonizzare la Palestina (Meltemi 2023)*
*disclaimer: mi è stato regalato dall’editore.
Tu condanni Hamas? Una domanda poco interessante, sicuramente meno di un’altra: tu comprendi Hamas? Non tanto perché fa quello che fa, ma quello che è. Nell’ultimo anno nel dibattito pubblico si sono alternate, o per meglio dire sfidate, due diverse interpretazioni di Hamas: quella che lo vede come un movimento di jihadisti assetati di sangue paragonabile allo Stato Islamico (Hamas = ISIS, ci ricorda una campagna propagandistica israeliana) e quella che lo vede come “la resistenza” e rifiuta di elaborare oltre. Entrambe queste visioni di Hamas sono evidentemente delle caricature – evidentemente, perché entrambe non cercano di descrivere Hamas ma semplicemente di etichettarlo come “male” o “bene” in forma assolutizzata e non contestabile: lasciamole usare a Christian Rocca e a Chef Rubio. Il fatto stesso di usarle è un’ammissione che non si comprende Hamas.
La cosa che queste due interpretazioni hanno in comune, e che a mio modesto parere è il motivo per cui mancano il bersaglio, è il fatto che entrambe vedono Hamas come una forza in lotta con la modernità. Per la prima interpretazione è ovviamente un male: Hamas è l’oscurantismo religioso fanatico venuto a mettere a repentaglio le conquiste della modernità (che in realtà, ma questa è un’altra questione, in questa visione sono considerate positive solo per la loro associazione all’Occidente). Per la seconda è un bene: Hamas è una possibile alternativa comunitaria alla società capitalista individualista e atomizzata (in questo caso la modernità è vista come un male, o meglio come un male travestito da bene, qualcosa di apparentemente positivo che ha tradito le sue promesse). Hamas come reazione particolarista al fallimento dell’universalismo astratto occidentale, direbbe il filosofo Stefano Azzarà. Che si aderisca all’una o all’altra visione, in entrambi i casi non si comprende Hamas perché Hamas non è una forza che lotta contro la modernità, ma una forza figlia della modernità.
Questo è il messaggio di fondo di Hamas di Paola Caridi, il testo più importante sulla storia di Hamas, recentemente ripubblicato da Feltrinelli. Caridi è una giornalista, ma soprattutto è un’allieva di Paolo Spriano, storico dei partiti politici e autore della più importante Storia del Partito comunista italiano, e nel suo libro tratta appunto Hamas come un partito politico, una forma organizzativa su cui si possono dire tante cose ma non che non sia legata alla modernità. Persino le motivazioni contingenti della sua nascita sono estremamente moderne: Hamas nasce nel contesto della Prima intifada come branca locale palestinese autonoma della Fratellanza musulmana, per reazione al pericolo che questa venisse superata a destra da altri gruppi islamisti – in particolare dal Movimento per il Jihad Islamico in Palestina – che avevano scelto la residenza armata contro Israele invece del lavoro assistenziale e culturale a cui la Fratellanza si dedicava nel suo tentativo di ricostruire un’identità culturale basata sulla religione come primo passo resistenziale. Si tratta, insomma, di una rivolta populista ante litteram interna al mondo dell’islam politico, dell’ascesa di un élite outsider proveniente da uno strato sociale precedentemente escluso dalla leadership. È l’ultima tappa di un processo cominciato con la Nakba nel 1948 e non è un caso che avvenga proprio a Gaza: come spiega Caridi, la Nakba porta a Gaza 200mila profughi il cui arrivo stravolge gli equilibri sociali locali, precedentemente basati sul notabilato palestinese urbano e commerciale, creando una frattura “tra la comunità politicizzata dei rifugiati e le famiglie al potere e i loro sostenitori”. In piccolo, è una Grande trasformazione, come quella che ha accompagnato la rivoluzione industriale in Inghilterra nell’Ottocento descritta dall’economista ungherese Karl Polanyi; la perdita di comunità provocata dall’occupazione alimenta necessità identitarie a cui rispondono dapprima i Fratelli musulmani e a cui poi risponderà Hamas. I profughi arrivati con la Nakba diventeranno la base di sostegno del movimento, nonché lo strato sociale da cui provengono i membri di quell’ala giovanile da cui poi nasce Hamas – 6 su 7 degli uomini presenti alla riunione del 1987 casa di Ahmed Yassin in cui viene fondato Hamas, sono profughi.
Hamas è un soggetto politico moderno anche sotto altri aspetti. In primis quello organizzativo: ha una struttura para-leninista, con un Politburo, diverse constituency (Gaza, la Cisgiordania, i militanti detenuti nelle carceri israeliane, la leadership in esilio all’estero) che consulta nel corso del processo decisionale – che tra l’altro avviene in un modo simile al centralismo democratico leninista – e a cui deve rendere conto. È un soggetto politico moderno anche per il suo opportunismo, per non parlare della sua flessibilità ideologica: per quanto sia spesso citata come gotcha del suo radicalismo, per inchiodare il movimento all’immagine distorta dalla propaganda che ne fa un gruppo jihadista, la sua Carta del 1988 – quella coi riferimenti alla distruzione di Israele – non è un testo sacro ma un documento redatto nelle particolari circostanze della Prima intifada e che nel frattempo è diventato un peso per il movimento. Lo storico islamista Azzam Tamimi, citato da Caridi, l’ha definita “il peggior nemico di Hamas”. In generale (e anche questa è una prova della modernità del movimento) il rapporto di Hamas con la Carta del 1988 che conterebbe i suoi principii fondativi è simile a quello del Partito comunista cinese con il marxismo (e ora voi mi tirerete addosso questo meme, ma io torno sempre su un argomento che conosco bene): anche se effettivamente un po’ delle cose che contiene le pensa davvero, vorrebbe poterne fare a meno, solo che non può e ufficialmente deve professare che vi aderisce e difenderla.
Tutti questi aspetti non sono particolarmente nascosti, anzi: c’è stato un periodo, quello intorno alla sua svolta partecipativa e alla sua clamorosa vittoria nelle elezioni palestinesi del 2006, in cui Hamas cercava in tutti i modi di farceli vedere; i suoi leader dicevano che la Carta del 1988 “non è il Corano”, redigevano un programma politico moderato, parlavano di Erdogan come un modello da seguire – Hamas come un partito di centrodestra religioso e nazionalista, insomma, una versione islamista della CDU tedesca o della Democrazia cristiana italiana. Oggi suona surreale, ma all’epoca non lo era: “Hamas non è un’organizzazione terroristica che tiene i residenti di Gaza come ostaggi: è un movimento nazionalista religioso” scriveva il quotidiano israeliano Haaretz nel 2008, letteralmente l’opposto della narrazione propagandistica usata oggi per giustificare la distruzione di Gaza (che peraltro non ha impedito lo sterminio di questi supposti “ostaggi” palestinesi di Hamas, esattamente come degli ostaggi presi da Hamas il 7 Ottobre). O ancora: Omar al Ansari, leader del gruppo salafita di Gaza Jaysh al Islam, e dunque un nemico interno del movimento, spiegava che la loro inimicizia nasceva dal fatto che “Hamas ha deciso di confrontarsi con la modernità e ha scelto la strada della democrazia, quindi di confrontarsi con il mondo occidentale”.
Il fatto che Hamas sia moderno, ovviamente, non vuol dire che sia un movimento progressista – anche se c’è chi a sinistra da un anno a questa parte ha cominciato a vederlo come tale. Questa fascinazione nasce in parte dal fatto ovvio che da un anno a questa parte, mentre uomini, donne e bambini palestinesi innocenti vengono uccisi nei modi più orribili, Hamas è uno dei pochi gruppi a opporsi con le armi a questo stato di cose – e tanto di cappello per questo. Ma a mio avviso non è tutto lì: c’è anche una ragione politica, che riguarda il modo di pensare della sinistra occidentale contemporanea dopo trent’anni di fine della Storia. In brevissimo: una parte essenziale della critica marxiana al capitalismo è quella che gli riconosce una serie di meriti storici – è il Marx che nel Manifesto del Partito comunista riconosce che “la borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria”. È essenziale perché permette di distinguere il socialismo marxista dalle altre forme di socialismo criticate sempre da Marx nel Manifesto: non si tratta di superare il capitalismo perché è brutto, ma perché ha esaurito il suo ruolo storico progressivo. Non solo non si può tornare indietro, ma non bisogna nemmeno volerci tornare. Trent’anni di sconfitta e scomparsa del marxismo hanno fatto dimenticare questa lezione, che del resto è difficile ricordarsi se ovunque ci si gira si vede un capitalismo che barcolla di crisi in crisi. Il risultato è che la sinistra contemporanea ha un ventre molle ideologico quando si tratta di riconoscere le differenze tra le varie forme di anticapitalismo – tra l’anticapitalismo di segno socialista, che vuole una società futura, e l’anticapitalismo comunitarista che propone l’illusione di un ritorno al mondo che c’era prima dell’ascesa rivoluzionaria della borghesia. Chiamo questo fenomeno “regresso polanyiano” perché è l’errore politico che commette Polanyi ne La grande trasformazione: la rivoluzione industriale trasforma i contadini in proletariato di fabbrica spezzando le loro comunità e abbassando i loro standard di vita, quindi è brutta, lunga vita alle rivolte dei luddisti! C’è però il fatto che senza la rivoluzione industriale non avremmo l’industria moderna e l’aumento straordinario del tenore di vita che si è portata dietro.
La sinistra occidentale contemporanea cade anch’essa in questa stessa trappola: il capitalismo è brutto, ci rende individui atomizzati, alienati gli uni dagli altri – e fin qui la diagnosi è giusta – quindi dobbiamo ritrovare i concetti di cura, di comunità, di ritorno alle origini. È un equivoco favorito dalla svolta culturalista associata alla cultura postmoderna che ha messo in soffitta il materialismo, che ti immette nel vicolo cieco degli identitarismi ed è la radice delle divergenze di opinione tra l’area woke e l’area marxista. Che sia così appare chiaro se pensiamo alla traiettoria di uno dei fondatori di Hamas, Sayyed Abu Musameh, che all’università prima di entrare nella Fratellanza musulmana era stato affascinato proprio dal socialismo: tra la visione fredda e materialista di Marx e quella calda e comunitaria di Polanyi ha scelto la seconda. Che è appunto una scorciatoia culturalista: in questa visione la comunità di cui ci si prende cura, che si cerca di preservare nella sua organicità e interezza può benissimo essere religiosa e moralista, bandire l’omosessualità e obbligare le donne a portare il velo – sempre meglio della dissoluzione di ogni legame operata dal capitalismo.
È questo il punto di debolezza di analisi come quella di Somdeep Sen, che si muove proprio in questa prospettiva. Il problema non è tanto il vederla così – ognuno può pensarla come vuole – quanto il fatto che vedendola così, di nuovo, non si capisce Hamas, che di per sé è estraneo a questa logica con cui lo si vorrebbe interpretare. Il suo comunitarismo è solo apparentemente una base ideologica: in realtà è del tutto contingente, il risultato di scelte pragmatiche, a volte opportuniste. La sua nascita è stata figlia della necessità di non farsi superare a destra sulla questione della lotta armata, la sua svolta elettorale è stata causata dall’aver capito che la gente in Palestina era stanca dell’incertezza di anni di intifada, la sua “islamizzazione soft” di Gaza (come la definisce Caridi) dopo il colpo di stato del 2007 è stata volta a compattare con temi culturali (che sono gratis) una popolazione che non aveva altro modo di compattare e che non vedeva più alcuna via d’uscita dopo l’intensificazione del blocco della Striscia. Di recente l’influencer italopalestinese Karem Rohana è diventato virale (ed è stato subissato di critiche) per aver detto in una puntata del podcast Muschio selvaggio che Hamas più che all’ISIS è simile a quelli che vogliono mettere il crocifisso nelle scuole, ma è proprio così: ad Hamas non interessa la redenzione del mondo; gli interessa governare e perpetuarsi. La religione è uno strumento, un po’ come la parrocchia serviva alla Democrazia cristiana per mobilitare una base elettorale, e se ci vediamo più di questo è perché – e qui hanno ragione gli attivisti pro-Palestina con cui ho litigato spesso su questi temi negli ultimi mesi – abbiamo dell’islamofobia interiorizzata. Ma non c’è alcun Sonderweg dell’islam politico palestinese: in altre circostanze (certo impossibili nel contesto in cui agisce, tantomeno oggi; si tratta di un puro esperimento mentale) Hamas non avrebbe mezzo problema ad abbandonare le armi, secolarizzarsi, abbracciare l’austerity, diventare la DC. Ma, appunto, la DC, non la teologia della liberazione. Questo perché, trapiantato fuori dalle pagine dei libri, Polanyi non ragiona in termini di classi e quindi stands for nothing, e i peana per la comunità distrutta dal capitale servono solo ad attirare l’attenzione perché facciano salire anche lui sul carro dell’accumulazione capitalista.
Al di là di questo orientamento, l’argomento principale del libro di Sen riguarda il fatto che Hamas rappresenterebbe la possibilità della compresenza di anti-colonialismo e post-colonialismo in Palestina. Anti-colonialismo perché non ha mai rinunciato alla lotta armata, post-colonialismo perché governando Gaza si comporta come uno stato, e quindi fa vedere un’anticipazione di come sarà la Palestina dopo la fine della colonizzazione. Per quanto venga accompagnata da un lavoro di ricerca sul campo di tutto rispetto – Sen è stato a Gaza, ha intervistato dirigenti di Hamas e anche oppositori del movimento – è un argomento che lascia un po’ il tempo che trova. Va bene, e quindi? L’approccio di Sen è idealista, e tutti i suoi discorsi su Hamas che governando Gaza inserisce il post-colonialismo all’interno di una situazione di colonialismo di insediamento sono giochi di parole per nascondere fatti molto semplici – in questo caso il fatto di un gruppo armato che, posto di fronte alla necessità di governare un territorio, si trasforma in burocrazia. Che di per sé non è niente di particolarmente interessante, né di particolarmente nuovo: nel primo Novecento il Partito comunista cinese (get better material!) ha amministrato per anni zone liberate, basi rosse, soviet contadini, aree in alcuni casi accerchiate dalle truppe nazionaliste e sotto embargo in modo non troppo diverso da com’era Gaza fino a un anno fa. Serve davvero a qualcosa interrogarsi sulla compresenza di anti-colonialismo e post-colonialismo al riguardo, sulla debolezza della postcolonialità che, in un contesto di colonialismo, può dare solo l’immagine della futura liberazione? Invece che partire da lì, i maoisti partivano dai fatti e dalle necessità delle zone liberate – che poi è anche quello che fa Hamas il quale, come spiega Paola Caridi, è molto attento alle domande politiche provenienti dal basso. Il resto sono astrazioni accademiche per cui si possono far valere le parole di un ragazzo palestinese intervistato da Sen a proposito della statualità dell’Autorità nazionale palestinese: “si basa tutto sulla fantasia, su qualcosa che non è reale, sull’illusione di un sogno”.
Il secondo problema della visione di Sen è che, invischiato in questa rete di giochi di parole, si rigira e si contorce ma poi finisce a giustificare la realtà com’è. Riportando le testimonianze di diversi palestinesi oppositori di Hamas e dell’oppressione e la violenza che hanno subito dal gruppo (uno è stato perquisito e un altro pestato dalla polizia di Hamas a Gaza, un terzo ha partecipato a una manifestazione repressa con la forza al valico di Rafah) Sen ne conclude che in quelle occasioni tutti e tre, per quanto in negativo, hanno “fatto esperienza della Palestina”: “Ahmed definì l’essere picchiato e perquisito ‘un’ingiustizia palestinese’ e indicò l’entità che la stava commettendo come ‘il governo nazionale’” (corsivi nell’originale). Dunque gli informatori di Sen sono stati pestati e insultati, ma almeno stavolta a farlo è stata la polizia palestinese, non quella israeliana, e così perlomeno hanno la consolazione di aver visto riflessa negli insulti e nelle botte la postcolonialità di uno stato palestinese libero! Basta questo per mostrare qual è la destinazione ultima di un approccio decoloniale idealista che rifiuta di problematizzare le divisioni di classe interne al popolo colonizzato. Sen stesso ammette che “è in corso una lotta di liberazione da Israele parallelamente a una battaglia sociale contro Hamas” ma invece che analizzare il come e il perché di queste due lotte parallele, analisi che aprirebbe faglie nella sua visione monolitica della Palestina, preferisce fare astrazioni sulla natura e la temporalità di una “liberazione” mai meglio definita, e di fatto per supportare solo la prima.
Tutti questi discorsi possono sembrare superati dalla storia oggi che Gaza praticamente non esiste più, che la maggior parte della sua popolazione è stata massacrata e la maggior parte dei suoi edifici è stata rasa al suolo – oggi che Israele ha scelto il genocidio come soluzione finale per la questione palestinese. Penso che abbia ancora più senso farli, se volete come analisi della sconfitta, perché più si va avanti, con Israele che rade al suolo Gaza, annette di fatto la Cisgiordania, invade il sud del Libano e minaccia l’Iran, più appare chiaro che si sta chiudendo una fase storica nella lotta per l’indipendenza della Palestina e in Medio Oriente in generale. Invece di fare il gioco delle tre carte con le parole colonialismo, decolonalità e postcolonialità, invece di prendere la realtà e di infilarla a forza dentro schemi accademici, ha più senso chiedersi, come fa Caridi, quale significato politico ha avuto l’ascesa dell’islam politico (e qui la risposta non troppo difficile: una rivolta populista alimentata in parte dalla percezione di un tradimento da parte del nazionalismo laico sceso a patti con gli israeliani e burocratizzatosi, in parte dal desiderio di comunità di fronte alla frammentazione sociale provocata dall’occupazione) e quale significato i suoi fallimenti. Perché Hamas, esattamente come Fatah, non è riuscito a liberare la Palestina? Cosa c’era di sbagliato nella sua strategia? Altrimenti si finisce, come finisce Sen, a rifugiarsi nel simbolico: ad ammettere che la forza militare di Hamas non è mai stata sufficiente neanche a pensare di liberare la Palestina e che il senso della sua lotta era in realtà la lotta stessa – tenerla viva, e disturbare Israele, far vedere che i palestinesi esistono. E allora ci si accorge come mai Sen non definisce mai precisamente cosa intende per “liberazione”, perché se lo facesse diventerebbe chiaro che la liberazione è soltanto una metafora. Ma questa non è solo una conclusione disfattista, è una conclusione sbagliata, perché la storia non si sviluppa in modo lineare – chiedere a Mao Zedong (get better material!), che nell’ottobre del 1935 arrivava a Yan’an con poche migliaia di compagni, tutto quello che rimaneva del movimento comunista in Cina, e che 14 anni dopo era sui rostri di Tiananmen a Pechino a proclamare il governo comunista.
Prossimi libri in lettura: ALESSANDRO ARESU, Geopolitica dell’intelligenza artificiale (Feltrinelli, 2024). Sto anche guardando Servitore del popolo (Kvartal 95, 2015-2019).
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