ROSS TERRILL, Madame Mao: The White-Boned Demon (Stanford University Press, 1984)
MICHAEL DILLON, Zhou Enlai: The Enigma Behind Chairman Mao (I.B. Tauris, 2020)
Jiang Qing (b. 1914) è stata l’unica donna nella storia ad essere arriva ai vertici di un Partito comunista, un’impresa tanto più notevole se si pensa che la condizione posta dalla dirigenza del Partito comunista cinese per approvare il suo matrimonio con Mao Zedong nella base comunista di Yanan nel 1938 era stata precisamente che non ricoprisse mai alcun ruolo politico. Avrebbe dovuto limitarsi a fare la moglie del capo, rimanendo rinchiusa nella sfera domestica anche dopo la presa del potere, rinunciando a esercitare influenza tramite il marito o a un eventuale ruolo da first lady. Questo perché già allora era chiaro che Jiang Qing aveva poco o nessun interesse per la rivoluzione o per il comunismo e molto interesse per se stessa. A differenza delle mogli degli altri leader del Partito – Deng Yinchao, moglie di Zhou Enlai, o Wang Guangmei, moglie di Liu Shaoqi – non aveva praticamente credenziali rivoluzionarie: prima di arrivare a Yanan aveva fatto sì una breve militanza nel Partito a Jinan, ma poi era andata a Shanghai a fare l’attrice tenendo solo pochi sporadici contatti con la cellula di Partito locale (e in questo stesso periodo, arrestata dal Guomindang, per farsi rilasciare aveva scritto una confessione in cui ripudiava il comunismo). In entrambi i casi la politica era stata per lei solo una via per stringere relazioni che potessero aiutarla in quello che davvero le interessava: la sua carriera artistica. Naturale quindi che un gruppo di uomini che da quasi vent’anni dedicavano la propria vita alla causa – cosa che da circa un decennio voleva dire vivere in delle grotte in varie “zone liberate” accerchiate da eserciti nemici – non la considerasse una di loro e cercasse di bloccare la strada. Ci sarebbero riusciti per quasi trent’anni; poi il tappo sarebbe saltato e Jiang Qing si sarebbe ripresa tutto con gli interessi diventando diventando la leader del Gruppo centrale per la Rivoluzione culturale. Nel 1976, alla morte di Mao, sarebbe stata arrestata insieme ai suoi tre fedelissimi Wang Hongwen, Zhang Chunqiao e Yao Wenyuan (la cosiddetta “banda dei quattro”) e condannata a morte con pena sospesa, poi tramutata in ergastolo, scomparendo dalla scena politica cinese fino alla sua morte per suicidio nel 1991, a 77 anni.
Zhou Enlai (b. 1898) è invece considerato un leader mancato per la Repubblica popolare cinese, una figura politica che personifica un grandissimo “e se…”. È uno di quelli che vivevano nelle grotte quando Jiang Qing era arrivata nella base rivoluzionaria di Yanan, e ha dedicato alla rivoluzione praticamente tutta la sua vita: ha fatto attivismo all’università durante il Movimento del 4 maggio, ha fondato il ramo europeo del Partito comunista cinese nel 1922 mentre si trovava in Francia per un esperienza di studio e lavoro, è stato direttore del Dipartimento politico dell’accademia militare di Whampoa durante la collaborazione tra comunisti e Guomindang, ha operato in clandestinità a Shanghai dopo la repressione dei comunisti da parte del Guomindang nel 1927 (il personaggio di Kyo Gisors in La condizione umana di André Malraux è, a quanto pare, in parte modellato su di lui in questo periodo), ha fatto la Lunga marcia, è stato uno dei massimi dirigenti del Partito comunista durante la guerra sino-giapponese e la guerra civile, e dopo il 1949 è stato ministro degli Esteri e Primo ministro della Repubblica popolare cinese. Per tutta questa lunghissima carriera è rimasto sempre un passo dietro Mao, consapevole di non essere – così scrive Dillon – leadership material, tagliato per il ruolo di capo. Più che di modestia, penso si tratti di una valutazione realistica – il realismo è sempre stato la miglior qualità di Zhou – delle proprie qualità e dei requisiti necessari per guidare il Partito: il capo della rivoluzione cinese doveva essere una figura sovrumana, e in questo Mao Zedong era sicuramente più adatto di Zhou Enlai, troppo umano. Zhou rappresenta un “e se…” ma la storia non sia fa con i se, e la rivoluzione non la guidano i gregari come Zhou.
Anche se ce li ricordiamo per il finale che hanno avuto, in realtà i rapporti tra Jiang Qing e Zhou Enlai sono stati per la maggior parte della vita di entrambi abbastanza cordiali. Se Jiang non è mai stata particolarmente apprezzata dalla dirigenza del Partito, che l’ha sempre considerata (non a torto, credo) una narcisista e un’arrivista e ha sempre cercato di limitarne la capacità di iniziativa, Zhou era, tra i dirigenti del Partito, quello che pur applicando nei suoi confronti questa linea ufficiale l’ha sempre trattata con correttezza. Un esempio: quando Jiang aveva trascorso un periodo in ospedale a Mosca per ricevere cure mediche (e perché il Partito la voleva fuori dai piedi) negli anni Cinquanta, Zhou, arrivato in Unione Sovietica per ragioni diplomatiche – ci dice Terrill – aveva trovato del tempo per andare a trovarla, cercare di tirarle su il morale e chiederle cosa poteva fare per lei (Jiang aveva chiesto di ricevere della stoffa per farsi dei vestiti, Zhou gliel’aveva mandata). Non era una mossa di scaltrezza politica, non stava adulando la moglie del capo – il matrimonio di Jiang e Mao era in quel momento forse nel suo punto più basso e sempre in quegli anni, in un’altra occasione simile, Mao aveva espressamente vietato a Zhou di andare a trovarla. Era una visita personale, perfettamente coerente con il personaggio di Zhou Enlai e la sua capacità di trattare a suo modo il personale e il politico. Vero, Jiang era una figura marginale che contava qualcosa in virtù del suo matrimonio con Mao, vero, era in disgrazia, ma restava comunque una compagna in una lotta ventennale. Vederla così fa capire meglio come Zhou sia riuscito, almeno in parte, a limitare tramite contatti, legami e favori personali i danni della Rivoluzione culturale, quel grande teatro politico scatenato da Mao per i propri fini di lotta di potere all’interno del Partito e da lui messo nelle mani di Jiang Qing, che l’ha a sua volta gestito per i propri fini di vendetta personale contro chiunque le avesse fatto un torto di qualsiasi tipo in passato (un esempio è Wang Guangmei, moglie di Liu Shaoqi, che nel primo periodo della Repubblica popolare cinese aveva fatto funzione di first lady mentre la dirigenza del Partito persisteva nell’ostracizzare Jiang Qing dal potere; Jiang Qing la invidiava e odiava per questo, e durante la Rivoluzione culturale Wang sarebbe stata incarcerata per oltre un decennio. A Liu sarebbe andata peggio: morì in carcere di diabete non curato nel 1969).
La Rivoluzione culturale avrebbe rotto il rapporto di reciproca tolleranza tra Zhou e Jiang, ed è il motivo per cui ce li ricordiamo nemici. Non poteva essere altrimenti, non tanto per questioni di successione al trono (Zhou non ha mai pensato di poter succedere a Mao; Jiang ci ha pensato, ma non ne ha mai veramente avuto la possibilità, sia perché donna, sia perché outsider nel Partito) quanto perché Zhou e Jiang personificavano due anime ugualmente presenti in Mao: da un lato il ribelle contadino che fonda la sua dinastia, il volontarismo romantico e appassionato, le poesie (ce n’è una dedicata a Jiang Qing, anche se sotto pseudonimo, scritta sul retro di una fotografia da lei scattata) e le nuotate nello Yangze, la tradizione; dall’altra il marxista che unisce teoria e azione, la volpe politica, la diplomazia e gli affari di stato, la rivoluzione. Due lati di una contraddizione centrale nella personalità di un leader che ha fatto della contraddizione il centro della sua teoria politica. Zhou e Jiang sedevano l’uno alla destra e l’altra alla sinistra di Mao – Zhou, leader dei moderati per personalità; Jiang, leader dell’ultrasinistra per opportunità, perché gli altri posti erano occupati – ed era inevitabile che venissero a conflitto quando, nei suoi ultimi anni, Mao si rigirava a destra e a sinistra nel suo letto di morte, senza sapersi decidere. Terrill descrive l’ultima riunione del Politburo alla presenza di Mao, tenutasi al suo capezzale, in cui, dando istruzioni per la successione, il leader avrebbe detto “Aiutate Jiang Qing…” finendo la frase in un mormorio incomprensibile: “…a correggere i suoi errori” secondo i moderati, “…a portare la bandiera rossa” secondo gli esponenti della sinistra. Una scena che ricorda la morte di Alessandro Magno, che lasciò l’impero “al migliore” tra i diadochi. Curiosamente, anche Jiang Qing ha fatto più volte ricorso ai paralleli con l’antichità per preparare il terreno alle proprie manovre politiche: dal “criticare Confucio” come attacco velato a Zhou, al suo patrocinio per una reinterpretazione della figura di Wu Zetian (624-705), la prima e unica donna a essere stata imperatrice della Cina, come tentativo di preparare il terreno per la sua successione ai vertici del Partito.
Certo, in quel momento Zhou Enlai era già fuori dal quadro. Era morto di cancro nel gennaio 1976, otto mesi prima di Mao. Jiang Qing, che era arrivata a vederlo come il suo principale avversario nella successione al potere, avrebbe esultato. Terrill ci dice che, arrivando in ospedale il giorno della morte di Zhou, Jiang non si era tolta il cappello entrando nella stanza del morto, causando l’ira dell’allora novantenne generale Zhu De; non se l’era tolto nemmeno durante il funerale, un gesto notato in tutta la Cina: “un soldato a Shenyang lanciò una sedia contro la tv per la rabbia; una folla a Canton, guardando l’incidente su uno schermo di quartiere in via Pechino, cominciò a gridare: ‘picchiatela! picchiatela!’”. Ma, come si dice, attento a ciò che vuoi perché potresti ottenerlo: la scomparsa di Zhou, rompendo l’equilibrio, sarebbe stata un duro colpo politico anche per Jiang. Sollevato il peso dal piatto di destra della bilancia, Jiang Qing sul piatto di sinistra era stata spinta in alto (la bilancia di questa metafora funziona al contrario) ma la politica aborre il vuoto, e presto si sarebbe materializzata una coalizione di forze per cercare di riportarla ancor più in basso di prima – la “sinistra” moderata del Partito, la “destra” di Deng Xiaoping, i militari. Nella percezione dell’epoca Jiang Qing si era servita di Mao per la sua ascesa: la verità è che è arrivata tanto in alto quanto Mao le ha permesso di arrivare, non un passo di più, e non un passo oltre il punto da cui non sarebbe stato possibile abbatterla. “Chi usa chi?”, è la domanda che soggiace a tutte le alleanze politiche ed è la domanda che è stata dietro al loro matrimonio, che ha funzionato solo in due periodi: gli anni di Yanan e gli anni della Rivoluzione culturale – il che ci dice molto su che tipo di matrimonio fosse: è stato Mao, questo leader bonapartista, a servirsi di lei per dare un colpo a “sinistra”, così come si è sempre servito di Zhou per dare un colpo a “destra”, e mantenersi così sempre al centro della scena politica.
La biografia di Zhou e la biografia di Jiang, lette una dopo l’altra, si leggono come una delle vite parallele di Plutarco. Zhou è stato – come dice il titolo di un’altra sua biografia, scritta da Gao Wenqian – “l’ultimo perfetto rivoluzionario”, privo di ogni individualismo, “leale alla rivoluzione e leale al partito”, per citare i versi di una canzone sul soldato modello Lei Feng in voga durante la Rivoluzione culturale. Coerentemente con ciò, il libro di Dillon non è tanto un ritratto personale quanto una cronaca del suo lavoro politico: c’è una totale identificazione tra Enlai l’uomo e Zhou il dirigente del Partito, e se ne esce un testo scarno e abbottonato è perché scarne e abbottonate sono per disegno le biografie ufficiali dei leader comunisti. “L’enigma” di cui parla il sottotitolo in realtà non c’è: se Zhou ci appare come una figura enigmatica, è perché diamo per scontato che nasconda chissà quale abisso inesprimibile di interiorità sotto l’abito dal taglio perfetto del dirigente rivoluzionario, ma pensandolo così lo fraintendiamo – e vogliamo fraintenderlo. Zhou Enlai è stato un uomo del XX secolo: sapeva separare il personale dal politico, ma ha scelto di dare importanza solo al politico. Il suo volto pubblico è il suo unico volto. Lo capiamo se lo mettiamo a confronto con Jiang Qing, che invece è stata una donna del XXI secolo nata per caso con un secolo di anticipo: un personaggio estremamente contemporaneo, profondamente individualista, leale soltanto a se stessa. Ha scritto Malraux ne La condizione umana – l’ho appena riletto, ma ora non ricordo se sono parole che fa pronunciare a Kyo Gisors, l’alter ego di Zhou Enlai – che “la voce degli altri la sentiamo con le orecchie, la nostra con la gola, perché senti la tua voce anche se ti turi le orecchie”. È così che funzionava Jiang Qing: i vizi altrui li sentiva con radicalismo rivoluzionario, i propri con moderatismo accomodante. Negli anni Trenta a Shanghai subiva l’influsso della cultura occidentale, durante la Rivoluzione culturale avrebbe attaccato chi ne subiva l’influsso; in nessuno dei due casi le è mai importato nulla della cultura occidentale di per sé. Anche il libro di Terrill sembra adattarsi al suo personaggio: è esagerato, con un gusto per i dettagli scabrosi e il gossip, e in certi passaggi sembra quasi dimenticarsi di essere una biografia e sconfinare nel romanzo storico.
Leggere insieme la vita di Zhou Enlai e la vita di Jiang Qing fa riflettere anche su un’altra questione, che prescinde da loro due come individui e dal contesto storico in cui sono vissuti per diventare una lezione politica di carattere generale. Nel lessico dei Partiti comunisti e della politica cinese l’uso dei termini “destra” e “sinistra”, o “riformisti” e “conservatori” può confondere un’osservatore proveniente dal XXI secolo e dalla democrazia liberale. I loro riformisti sono la nostra destra e i loro conservatori la nostra sinistra, grossomodo, perché la loro destra è vicina a dove ci troviamo noi, e la sinistra qui è inesistente. Proprio questa difficoltà a orientarci nella diversità dei due sistemi di riferimento permette di vedere meglio cosa c’è sotto l’etichetta. E così scopriamo che nel Partito comunista cinese del XX secolo i veri marxisti erano quelli “di destra” come Zhou Enlai (e Deng Xiaoping), che ai piani irrealistici di Mao basati sugli altiforni per fare l’acciaio in giardino contrapponevano l’idea che un sistema economico non possa essere sostituito da un altro prima che siano emerse le basi materiali delle nuovo sistema (sfociando in quello che si chiama “determinismo delle forze produttive”, sì, e in un altro ordine di problemi). E scopriamo che quelli “di sinistra” come Jiang Qing e la “banda dei quattro” (e lo stesso Mao) erano più nietzscheani che marxisti nella loro enfasi sul volontarismo rivoluzionario, più idealisti che materialisti nel prendere le citazioni del presidente Mao come guida per qualsiasi cosa, dalla condotta privata all’attività produttiva. Il radicalismo, insomma, può essere una guida per l’azione ma può essere anche una trappola in cui si rimane invischiati, un vicolo cieco politico, allo stesso modo in cui può esserlo il “pragmatismo” che gli si oppone – di cui però siamo più bravi a vedere i limiti, perché abbiamo molta più familiarità con l’archetipo dell’ex rivoluzionario diventato consigliere del PD di quanta non ne abbiamo con quello del burocrate che aizza le folle fingendosi un rivoluzionario. Per come stanno andando le cose nella politica globale – e in questo inciso inserite l’esempio che preferite, il mio personale è il diffuso sostegno a sinistra per Hamas – è una lezione politica che finiremo per imparare nella pratica, a nostre spese, se non riusciamo a impararla prima nella teoria.
Per finire, mentre Zhou Enlai era perfettamente a suo agio nella sua epoca, Jiang Qing è stata una cosplayer politica in anticipo sui tempi. Tutto il suo volto pubblico era una maschera costruita ad arte, ogni sua azione un movimento coreografato come nel film propagandistico da lei esaltato, Il distaccamento rosso delle donne; per quanto sia arrivata di fatto a governare la Cina per un certo periodo, il suo momento di massima fioritura è con ogni probabilità quello che ha vissuto quando faceva l’attrice a Shanghai negli anni Trenta, tant’è che per tutto il resto della sua vita ha continuato a percepirsi su un palcoscenico. Non è un caso che proprio dalle arti sia partito il suo ruolo in quella che non a caso chiamiamo Rivoluzione culturale. Zhou sapeva di non essere tagliato per il protagonismo e, per sua fortuna, è vissuto in un’epoca che premiava tale qualità – un’epoca in cui il socialismo era roba da grigi burocrati intercambiabili. Jiang aveva la main character syndrome, e sarebbe più a suo agio nel mondo e nella politica odierni di quanto non sia stata in quelli dei tempi in cui ha vissuto. Zhou è stato comunista in modo noioso, moderato, con i piedi per terra: per questo è stato etichettato come una minaccia di destra all’utopismo della rivoluzione cinese. Jiang è stata radicale e utopistica per mascherare il fatto che con il comunismo non è mai c’entrata nulla. Come ebbe a dire Deng Xiaoping – alleato di Zhou, nemico giurato di Jiang – nel 1992, quando sia Jiang che Zhou appartenevano già alla storia, bisogna “mantenere la vigilanza contro la Destra, ma soprattutto contro la ‘Sinistra’”.
Prossimi libri in lettura: QINN SLOBODIAN, Il capitalismo della frammentazione (Einaudi, 2023); NICHOLAS MULDER, The Economic Weapon: The Rise of Sanctions as a Tool of Modern War (Yale University Press, 2022)