
Diary: un nuovo format di Ufficio Politico in cui, in casi eccezionali, scrivo di quello che mi pare invece che dei libri che leggo.
Un mio carissimo amico ha uno zio prete che un paio di anni fa è diventato vescovo: vescovo ausiliare di Roma, per la precisione. È stato ordinato con una cerimonia a porte chiuse nel Duomo di Milano, alla presenza delle gerarchie ecclesiastiche e dei parenti stretti, tra cui il mio amico. Tutto ciò era dovuto al fatto che diversi decenni prima questo semplice prete dell’hinterland milanese aveva ospitato un giovane Bergoglio venuto in Italia non so per quale motivo; i due erano rimasti in contatto e un bel po’ di anni dopo Papa Francesco gli aveva fatto fare carriera, anche se non aveva voluto (o forse non ne aveva avuto il tempo) farlo diventare cardinale e dunque inserirlo tra i grandi elettori che nelle prossime settimane saranno chiamati a scegliere il prossimo papa. La maggior parte di loro sono stati creati da Papa Francesco: probabilmente quella dello zio del mio amico non è l’unica storia del genere.
La morte di Papa Francesco ha ovviamente aperto le chiuse dei bilanci sulla sua figura, mostrandoci che ne sono esistite due versioni radicalmente diverse. Per una certa bolla di estrema sinistra c’era un Papa Francesco di destra: il capo di una teocrazia che inganna le masse col suo oppio, un nemico che si opponeva a una serie di questioni considerate cruciali dalla sinistra radicale quali il diritto all’aborto e i diritti LGBT, la testa di un’organizzazione reazionaria ricchissima che non paga le tasse. Per molte persone moderatamente di sinistra come mia madre, Papa Francesco era un progressista che ha svecchiato la Chiesa, ha aperto spazi a modi personali di vivere la fede senza curarsi troppo di dogmi e sofismi e le ha permesso di fare la comunione nonostante fosse divorziata (big deal per lei), oltre ad aver preso apertamente posizione contro la guerra. Per l’immaginazione della destra globale, Papa Francesco era un’aberrazione, un papa comunista/woke/marxista culturale che si faceva le foto con Fidel Castro, un papa da rifiutare come illegittimo (c’è tutta una bolla di estremisti cattolici che non ha accettato le dimissioni di Benedetto XVI e non ha riconosciuto l’elezione di Bergoglio; per loro negli ultimi 12 anni il papato è stato sede vacante). Quale di questi era il vero Papa Francesco? Quello con in mano il crocifisso-falce-e-martello regalatogli da Evo Morales o quello della “troppa frociaggine” nella Chiesa? Di solito quando esistono interpretazioni così diverse tra loro della stessa figura storica, tanto diverse da sembrare customizzate sulle preferenze di chi guarda, sono tutte giuste e tutte sbagliate allo stesso tempo perché la figura di cui si parla è stata tutte queste cose insieme, ma anche nessuna di queste cose. L’esempio più perfetto di questo tipo di politico, oggi, è probabilmente Vladimir Putin: di volta in volta il Tony Blair russo, la marionetta degli oligarchi, il leader antimperialista, il nuovo zar, ma soprattutto nessuna di queste cose. Un esempio rilevante del passato è Iosif Stalin.
Una delle citazioni più belle di Stalin è: i quadri decidono tutto. La pronuncia in un discorso nel 1935 e diventa subito uno slogan, forse lo slogan più importante per capire lo stalinismo come fenomeno politico. I quadri decidono tutto perché nessuna organizzazione è in grado davvero di trasmettere le sue direttive dall’alto (la dirigenza) al basso (la base). Se questa trasmissione avviene è grazie a chi ci sta in mezzo, i quadri appunto, e per grazia di costoro: i quadri possono decidere di sabotare la trasmissione se le direttive che ricevono dall’alto non gli piacciono. In cinese c’è un’espressione che dice la stessa cosa: le montagne sono alte e l’imperatore è lontano (山高皇帝远). Più ci si allontana dal centro, in sostanza, più la dirigenza di qualsiasi organizzazione dipende dai quadri per il suo successo, tanto quanto i quadri dipendono dalla dirigenza per la loro legittimità e il loro potere. Come Stalin, Papa Francesco ha creato i suoi quadri, sotto forma di un centinaio di cardinali scelti da lui, che devono a lui la porpora e che, se non hanno lealtà personale nei suoi confronti e nei confronti del suo progetto politico (la Chiesa cattolica non è il Partito bolscevico: è ancora più ideologica, se possibile, e la sua ideologia è il servizio a Dio) si suppone siano perlomeno influenzati dalle stesse condizioni materiali che l’hanno spinto in alto fino al soglio papale. Ma che sono pur sempre quadri, e dunque decidono tutto. È per questo che chiedersi come voteranno in conclave i vari cardinali ha senso fino a un certo punto. Le colonne del Bernini sono alte, e il Papa è morto. Ha più senso farsi un’altra domanda: di cosa era il prodotto Papa Francesco?
Secondo un’interpretazione avanzata per primo da Trockij (e poi adottata anche da studiosi che non avevano risentimenti personali nei confronti di Stalin, come Sheila Fitzpatrick) lo stalinismo è stato il riflesso politico dell’ascesa della burocrazia: lo strato sociale che ha supportato l’ascesa di Stalin è stato quello dei quadri, specie di quelli lontani dai centri di potere. Stalin era consapevole del rapporto di simbiosi tra dirigenza centrale e quadri e per questo l’offerta stalinista fatta a questo strato sociale era così allettante: da un lato, un ritorno alla normalità mascherato da consolidamento della rivoluzione; dall’altro, potere e autonomia in cambio della loro assoluta lealtà. Lo stalinismo rappresenta la chiusura della parentesi di grandi esperimenti sociali degli anni Venti – il periodo in cui i bolscevichi smuovevano cielo e terra per creare una società completamente nuova, il periodo a cui oggi guardiamo quando diciamo che l’URSS era un paese avanzatissimo sul piano dei diritti civili – e il ritorno, in forme nuove, di tanti aspetti della società prerivoluzionaria, con la giustificazione che bisognava proteggere i guadagni fondamentali della rivoluzione. Questo ritorno alla normalità era ben accolto dai quadri, perché significava il consolidamento della loro posizione di autorità a livello locale. Ma non poteva avvenire alla luce del sole, e quando lo stalinismo emerge veramente – nel 1929, dopo che Stalin, fatto fuori Trockij con l’aiuto della destra del Partito, fa fuori la destra del Partito – deve farlo mascherandosi da ritorno alle retoriche rivoluzionarie dopo la pausa della Nuova Politica Economica, quella “ritirata strategica” dal socialismo voluta da Lenin che aveva ripristinato le relazioni di mercato nelle campagne. La prima mossa staliniana è l’interruzione della NEP e la collettivizzazione forzata: è il ritorno del volontarismo, della mobilitazione delle masse, dell’idea di costruire da zero un nuovo mondo socialista. Non a caso passa alla storia come una rivoluzione, anche se una paradossale “rivoluzione dall’alto”. Seguiranno la guerra civile nelle campagne, la liquidazione dei kulaki come classe, eccetera eccetera.
Uno dei modi in cui viene venduta la rivoluzione dall’alto staliniana è quello di una mossa preventiva: la NEP, ripristinando embrioni di mercato nelle campagne, da un lato sta mettendo l’URSS sulla strada della restaurazione del capitalismo (e quindi la sua interruzione ha una facile giustificazione ideologica) e dall’altro sta preparando una rivolta sociale (e dunque c’è anche una giustificazione pragmatica). L’egualitarismo da cui trae la sua legittimità il regime uscito dalla rivoluzione d’Ottobre è in pericolo perché i bolscevichi hanno adottato una politica che sta producendo nuove disuguaglianze: con la NEP c’è chi si arricchisce e inizia a fare una vita diversa da quella che fanno tutti gli altri, e c’è chi vedendo questi nuovi ricchi inizia sia a covare risentimento – nei loro confronti, nei confronti del sistema che li fa emergere e nei confronti del Partito che governa quel sistema – sia a rimpiangere i bei tempi in cui i nuovi ricchi non c’erano e la rivoluzione era pura. Si tratta di una tendenza che si insinua all’interno dello stesso Partito bolscevico: negli anni della NEP tanti vecchi bolscevichi e tanti comunisti occidentali emigrati in URSS dopo la rivoluzione avevano strappato la tessera del Partito. La “rivoluzione dall’alto” di Stalin, allora, avviene da un lato come riflesso degli interessi di una burocrazia che vuole potersi godere tranquillamente la posizione di potere che si è conquistata con il processo rivoluzionario; dall’altro come gioco d’anticipo, un ritorno alle origini controllato per prevenire l’esplosione di una rivolta populista all’interno del Partito. Le sue più grandi brutalità, come la liquidazione dei kulaki, vengono accettate proprio in virtù del fatto che sono mosse fatte per difendere la rivoluzione e riportarla sul binario giusto. È in virtù di questo che Stalin riesce a presentarsi come il miglior discepolo di Lenin – non del Lenin reale, quello che aveva voluto la NEP, ma del Lenin immaginario che nella testa del Partito era la personificazione della rivoluzione d’Ottobre.
Cosa c’entra tutto questo con Papa Francesco? Nel 2013 la Chiesa cattolica, l’organizzazione politica più conservatrice al mondo ma che ha le sue origini in una delle più grandi rivoluzioni sociali della storia dell’umanità, si è scelta come nuovo capo un tizio non europeo e vagamente progressista. A sceglierlo non è stata un’assemblea di progressisti ma un conclave i cui membri erano stati nominati o da un teologo tedesco conservatore o dal polacco anticomunista amico di Pinochet che l’aveva preceduto. Si può supporre che non fossero dei progressisti sotto copertura che finalmente rivelavano le loro vere convinzioni ma piuttosto che fossero conservatori disposti a scendere a un compromesso per ragioni contingenti. Quali siano state quelle ragioni è chiaro se guardiamo di nuovo la data del conclave che ha nominato Papa Francesco: 2013. C’è appena stato Occupy, a breve ci sarà Syriza: le conseguenze politiche della Grande crisi si stanno manifestando come oscillazione a sinistra. Appena fuori dalle mura del Vaticano, il 2013 è stato l’anno dell’exploit elettorale del Movimento 5 Stelle, che ha cavalcato la rabbia popolare nei confronti della “casta” politica, che a sua volta era l’argine in cui si era cercato di incanalare le tensioni sociali figlie della crisi.
In quanto organizzazione burocratica e conservatrice ma con delle radici estremamente rivoluzionarie, la Chiesa cattolica è fortemente vulnerabile a un’agitazione che proponga un suo spostamento a sinistra sotto la bandiera del ritorno alle origini. E in più, se è vero che i cardinali sono tutti stati nominati da papi conservatori e per la maggior parte vengono dall’Occidente sviluppato, è altrettanto vero che la base della Chiesa cattolica, cioè i fedeli, sono ormai quasi tutti fuori dall’Occidente, in posti poveri e sottosviluppati – c’è dunque una separazione tra la burocrazia e la base che sta erodendo la legittimità dell’organizzazione: la burocrazia inizia a essere percepita come non rappresentativa della base, come non in grado di ascoltarne e soddisfarne le esigenze. L’elezione di Papa Francesco è quindi una “rivoluzione dall’alto” per prevenirne una dal basso: il nuovo Papa è progressista, viene dalla periferia del mondo cattolico, adotta uno stile umile e il nome di un santo molto popolare mai utilizzato da un pontefice. È, in una parola, un populista di sinistra che vuole simboleggiare un ritorno alle origini – ma un ritorno saldamente controllato, effettuato in anticipo per togliere il terreno sotto i piedi a eventuali movimenti che chiedano un ritorno alle origini vero (l’anno prima dell’elezione di Bergoglio, dall’altra parte del mondo un’altra organizzazione burocratica e conservatrice che trae le sue origini e la sua legittimità da una delle più grandi rivoluzioni della storia umana – il Partito comunista cinese – aveva nominato Segretario generale una figura simile, Xi Jinping, dopo essere riuscita a stento ad arginare l’emergere di un movimento populista che chiedeva un ritorno alle origini vero, ma questa è un’altra storia). Papa Francesco è stato il prodotto dell’ascesa di un nuovo strato di quadri della Chiesa cattolica che stanno nelle periferie della comunità cristiana, che decidono tutto, e il cui tacito assenso è necessario perché le politiche decise a Roma non restino lettera morta. E allo stesso tempo è stato il prodotto della percezione da parte della burocrazia ecclesiastica della sua crisi di legittimità incipiente, una crisi che sommata all’ascesa di quel nuovo strato di quadri minacciava di aprire spazi per una crisi generale del sistema. È stato compito di Bergoglio – un gesuita, cioè un membro di quello che è allo stesso tempo sia un corpo ecclesiastico d’élite sia un ramo della Chiesa visto con sospetto per quanto è disposto ad adattarsi alle circostanze in cui opera – arrivare a mettere una pezza. Quando ha sussurrato all’orecchio di un conclave di cardinali conservatori per suggerirgli di mettere al potere Bergoglio, lo spirito santo forse aveva la voce di Richard Nixon: “è un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”.
Prossimi libri in lettura: STEPHEN KOTKIN, Magnetic Mountain: Stalinism as a Civilization (University of California Press, 1995)
super interessante
Mi piacerebbe avere la lucidità per leggere queste dinamiche con altrettanta profondità. L’idea che l’elezione di Francesco sia stata una risposta strategica alla crisi di legittimità della Chiesa mi sembra insieme cinica e geniale.