ARNO J. MAYER, Why Did the Heavens Not Darken?: The “Final Solution” in History (Verso, 2012)
Il 10 maggio 1940, quando l’esercito tedesco aveva cominciato Fall Gelb, il Caso Giallo, ossia l’operazione di invasione della Francia, la famiglia Mayer si era messa in macchina ed era partita dal Lussemburgo cercando di muoversi più velocemente della Wehrmacht. Ebrei pienamente emancipati e acculturati, avevano idea di cosa aspettarsi dalla Germania nazista. Al termine di un viaggio durato settimane erano arrivati al confine spagnolo, ma solo per venire respinti alla frontiera e ritrovarsi bloccati nella Francia di Vichy. Qualche mese dopo erano riusciti a prendere un traghetto per Orano, in Algeria, da dove erano entrati illegalmente in Marocco venendo poi arrestati dalla polizia di frontiera, finché nel gennaio del 1941 non erano riusciti a ottenere un visto per gli Stati Uniti. Durante queste peripezie Arno J. Mayer (1926-2023) era un ragazzino: arrivato a New York avrebbe preso la cittadinanza americana, servito nell’esercito con compiti di intelligence (nello specifico, interrogare soldati tedeschi catturati) e studiato a Yale, per poi diventare uno dei più grandi storici del Ventesimo secolo. I suoi nonni materni, invece, che quel giorno avevano deciso di non lasciare il Lussemburgo, sarebbero stati deportati nel ghetto modello di Theresienstadt, dove per fini di propaganda gli ebrei erano lasciati liberi di auto-gestirsi, prima di venire trasferiti nel campi di sterminio.
L’interesse principale di Mayer è quella che lui chiama “la seconda guerra dei Trent’anni”, ovvero il periodo che va dal 1914 al 1945. Invece di separare i due grandi conflitti del Novecento, Mayer li vede come due parti dello stesso periodo di crisi, guerra e rivoluzione. La sua tesi è che questa crisi sia stata il risultato di una contraddizione tra il rapido sviluppo economico europeo della fine dell’Ottocento e una non altrettanto rapida evoluzione dei sistemi politici europei: una società nuova coesisteva con un ordine politico troppo rigido. Il tentativo da parte delle vecchie élite aristocratiche europee di mantenersi al potere di fronte alla modernità e alla politica di massa, il loro desiderio di rallentare o rovesciare il corso dello sviluppo storico, avrebbe prodotto le catastrofi del secolo. Mayer ha esposto questa tesi nel suo libro più famoso, The Persistence of the Old Regime (Pantheon Books, 1981; in italiano Il potere dell'Ancien Régime fino alla prima guerra mondiale, Laterza, 1999), in cui legge le due guerre mondiali e il fascismo come conseguenze della crisi esistenziale dell’aristocrazia europea di fronte alla modernità: pur rimanendo la classe dominante del continente, aveva percepito la propria perdita di funzione e di egemonia e aveva risposto a ciò con la promozione di ideologie reazionarie e il rifiuto della democrazia. In questa lettura, il fascismo sarebbe un genio a cui le classi fino a quel momento dominanti si sono rivolte in un momento di crisi e che non sono poi più riuscite a rimettere nella lampada, finendo per venire travolte loro stesse dagli sconvolgimenti di un processo al termine del quale la modernità si è definitivamente affermata in Europa. Non è una lettura così diversa da quella classica marxista – Mayer era un marxista dissidente – ma se vogliamo è più olistica e meno materialista: il genio del fascismo non è evocato dai capitalisti di fronte all’ascesa del movimento operaio, ma in generale dalle vecchie classi dominanti di fronte all’ascesa della modernità. È una lettura che Mayer sembra modificare in senso più materialista in Why Did the Heavens Not Darken?: The “Final Solution” in History (Pantheon Books, 1988; in italiano Soluzione finale. Lo sterminio degli ebrei nella storia europea, Mondadori, 1989), dove per l’appunto non parla del generico desiderio delle vecchie élite di ricacciare indietro ideologicamente la modernità ma della loro molto più materiale volontà di distruggere il movimento operaio.
Why Did the Heavens Not Darken? è il libro più controverso di Mayer. È una storia della “Soluzione finale” che, cercando di collocarla in un contesto storico più ampio, non solo relativo all’ideologia nazista ma anche all’odio antiebraico europeo pre-novecentesco, prova a reinterpretarne radicalmente il senso. La tesi fondamentale di Mayer è che la “Soluzione finale” non fosse lo scopo ultimo a cui tendeva tutta l’esperienza nazista, che i nazisti non fossero partiti fin da subito con in testa l’idea fissa di sterminare il popolo ebraico, che piuttosto tale idea sarebbe emersa col tempo e in reazione alle circostanze. Finché la guerra va bene, afferma Mayer, l’antisemitismo nazista rimane simile a quello diffuso in Europa nei secoli precedenti, fatto di pogrom e violenza disorganizzata, e il “problema ebraico” viene considerato risolvibile tramite l’emigrazione (volontaria o “incoraggiata”) o la deportazione (in Palestina, in Madagascar, nei nuovi territori da conquistare a est). È solo quando la situazione militare si ribalta, in seguito al fallimento dell’offensiva su Mosca del 1941 e al conseguente stallo dell’Operazione Barbarossa – che contiene in sé l’implicazione della sconfitta strategica del Terzo reich nella Seconda guerra mondiale – che il giudeocidio diventa la missione preminente del nazismo. È quando l'Armata rossa riesce a rallentare di diverse settimane la conquista nazista di Kiev, pregiudicando il resto della sua campagna militare, che i nazisti compiono il primo massacro di ebrei su vasta scala a Babij Jar. È solo dopo che la Wehrmacht viene fermata dall’Armata rossa alle porte di Mosca che i leader nazisti si riuniscono a Wannsee per pianificare lo sterminio degli ebrei. La brutalità nazista nei confronti degli ebrei aumenta in modo graduale in un rapporto inversamente proporzionale alla facilità con cui conseguono successi politici e militari. E anche verso la fine, quando la pulsione sterminatrice del regime nazista sta venendo sfogata appieno con i campi di sterminio e tutto il resto, ciò non avviene comunque in modo lineare, ma a zig-zag: Mayer identifica all’interno del tardo nazismo una tendenza “produttivista”, interessata in primis a sfruttare gli ebrei come forza lavoro servile al servizio dell’industria bellica nel tentativo sempre più disperato di riottenere l’iniziativa militare sul fronte orientale, e una tendenza “sterminazionista”, mossa dalla volontà di ucciderli e basta, nel numero più alto possibile, dando implicitamente per persa la guerra.
Da quest’analisi segue una visione radicalmente diversa dell’ideologia nazista, in cui l’antisemitismo non è ovviamente assente ma gioca un ruolo secondario. Per Mayer il cuore del nazismo non è l’odio antiebraico. Se fosse solo una questione di antisemitismo non si spiegherebbe come il nazismo sia riuscito a coalizzare dietro di sé le vecchie élite tedesche, che erano sì anche antisemite, ma lo erano nel senso che l’antisemitismo per loro – come per le vecchie élite europee in generale – era una coloritura della loro visione del mondo, non la loro visione del mondo. E in quanto tale non poteva essere il punto centrale con cui mobilitarle dietro un progetto politico. Il punto centrale, e qui Mayer dimostra le origini marxiste della sua lettura del fascismo, era l’anticomunismo: il messaggio con cui il nazismo convince le vecchie élite a cedergli il comando dello stato non è “distruggiamo gli ebrei per la salvezza della razza” ma “distruggiamo il comunismo per la salvezza del capitale”. L’antisemitismo era sempre presente sullo sfondo di questo messaggio, in parte come antisemitismo tradizionale, in parte in una versione rielaborata che parlava di “giudeobolscevismo” e vedeva il comunismo come una malattia e gli ebrei come i parassiti portatori del contagio. Una rielaborazione che non era farina del sacco del nazismo, ma aveva le sue origini della propaganda dell’Armata bianca durante la guerra civile russa del 1918-1920 – che del resto era stata il primo momento in cui le vecchie élite si erano scontrate con il comunismo.
In quest’ottica l’Operazione Barbarossa, l’invasione nazista dell’Unione sovietica, viene riletta da Mayer come ben più di una semplice operazione militare: come una crociata ideologica per distruggere il centro del comunismo internazionale. Era quello, e non lo sterminio degli ebrei, il vero fine del nazifascismo: dopo aver distrutto completamente i comunisti e socialdemocratici in casa propria – le primissime vittime di Hitler dopo la sua ascesa al potere – ed essersi così conquistato un credito presso le vecchie élite tedesche che gli avevano chiesto di fare esattamente quello, il nazismo si scagliava contro il luogo da cui quei nemici erano usciti proponendosi come avanguardia di una controrivoluzione europea. Il giudeocidio è per Mayer essenzialmente un sottoprodotto di questa crociata – un sottoprodotto inevitabile, ma non il prodotto principale – allo stesso modo in cui le crociate medievali avevano come sottoprodotto dei pogrom antiebraici nelle città attraversate dalle colonne di crociati diretti in Terrasanta, con una differenza di scala e di metodi frutto della differenza tecnologica tra medioevo e età moderna. Il titolo del libro di Mayer riprende una frase della Cronaca di Solomon bar Simson, un testo anonimo del XII secolo che documenta le persecuzioni degli ebrei nell’area della Renania, che all’epoca ospitava le comunità ebraiche più culturalmente ed economicamente floride dell’Europa occidentale, durante la Prima crociata (1096-1099). Dopo aver raccontato dell’uccisione di oltre un migliaio di ebrei in un solo giorno nella città di Worms da parte dei crociati guidati da Pietro l’eremita e dal conte della Renania Emicho von Leiningen, l’anonimo autore della cronaca commenta: “Perché i cieli non si sono oscurati e le stelle non hanno cessato di brillare, perché il sole e la luna non si sono oscurati?”. Proprio come i massacri degli ebrei in Renania da parte dei crociati erano stati figli, oltre che di un antisemitismo culturale intrinseco, della frustrazione prodotta dal non riuscire ad arrivare in Terrasanta a combattere i musulmani, allo stesso modo il giudeocidio nazista era stato stimolato dalla frustrazione per l’impossibilità di risolvere il “problema ebraico” una volta per tutte: sconfiggendo il “giudeobolscevismo”, rendendo gli ebrei incapaci di nuocere e deportandoli tutti altrove.
In entrambi i casi e in entrambe le crociate, i massacri erano insieme un modo di sfogarsi e un modo alternativo di combattere per la causa. E lo erano in virtù del fatto che quelle di ebreo e bolscevico (per i crociati nazisti) e quelle di ebreo e musulmano (per i crociati medievali) erano categorie intercambiabili perché entrambe esterne alla comunità di appartenenza: la comunità religiosa cristiana per i crociati medievali, la comunità della civiltà occidentale per i crociati nazisti. È un punto, quello dell’essere lo scudo che difende la civiltà occidentale dalla barbarie, su cui la propaganda nazista ha sempre insistito, ma a cui la narrazione standard del nazismo non presta particolare attenzione. Eppure la crociata antibolscevica del Terzo reich, coronata dall’Operazione Barbarossa, era vista dai nazisti come una guerra per la vita o la morte, Sein oder Nichtsein, non solo del regime nazista stesso ma di tutta la civiltà occidentale. I nazisti erano ben consapevoli di essere arrivati al potere come una sorta di genio con appeal di massa evocato dalle vecchie élite screditate per salvarle dai cambiamenti sociali portati dalla modernità. E vedevano la guerra contro l’Unione Sovietica solo come il coronamento a livello internazionale di questo compito che gli era stato dato e che avevano portato a termine con successo a livello nazionale. È per questo che la guerra sul fronte occidentale, dove i nemici erano popoli civilizzati, era stata condotta con meno brutalità di quella sul fronte orientale, dove i nazisti difensori di una razza-civiltà affrontavano le orde barbare degli üntermensch. È per questo che il regime hitleriano aveva sempre coltivato il sogno di giungere a un accomodamento con gli Alleati per potersi concentrare, con il loro benestare, sulla guerra all’Unione Sovietica, che dal suo punto di vista era condotta anche nel loro interesse. E quando questo accomodamento si era rivelato impossibile, aveva dato la colpa all’influenza degli ebrei sulle élite angloamericane. Nella loro interpretazione allucinata della modernità i nazisti si vedevano come un’avanguardia, come l’unica parte della civiltà occidentale a essersi data una svegliata in tempo, ad aver capito qual fosse la posta in gioco in quel momento storico, ad aver portato il ragionamento alle estreme conseguenze.
Ed è facile intuire perché questo punto venga in genere nascosto sotto il tappeto: è fin troppo attuale e fin troppo comprensibile per le nostre orecchie. L’argomento della difesa dell’Occidente viene oggi avanzato da molti dei nostri politici e intellettuali: lo sentiamo quando si parla della guerra in Ucraina – sia dalla nostra parte, secondo cui l’Ucraina è la prima linea della difesa dell’Occidente dalle orde russe (non c’è da stupirsi se poi i soldati ucraini si mettono le toppe con i simboli nazisti sulle divise), sia da parte dei nostri nemici, secondo cui la Russia è l’ultimo bastone di civiltà rimasto venuto a salvare l’Occidente dalla sua stessa degenerazione. Lo sentiamo quando si parla di dare carta bianca a Israele per i suoi massacri, presentati (e giustificati) come episodi di una lotta esistenziale della civiltà occidentale contro la barbarie del terrorismo islamico. Sono discorsi sconvolgentemente simili non solo a quelli che facevano i nazisti del secolo scorso ma a quelli che facevano fino a poco tempo fa i veri (nel senso di non puramente folcloristici) nazisti di oggi: penso all’attentatore di Utøya Anders Breivik, o all’attentatore di Christchurch Brenton Tarrant, che condividevano con i loro progenitori sia l’interpretazione allucinata dei cambiamenti storici in corso sia la fredda consapevolezza della loro posizione all’interno di questi cambiamenti, e si presentavano come avanguardie venute a indicare la strada da percorrere.
Sono discorsi che sono diventati oggi senso comune, dalle pagine del Foglio ai tweet di Visegrad24. Ci ritroviamo lo stesso odio per la sinistra, vista ieri come oggi come una quinta colonna di traditori che lavorano per distruggere la civiltà occidentale dall’interno. E a guardar bene ci ritroviamo anche il giudeobolscevismo del secolo scorso, oggi mutato nell’islamogauchismo, la supposta alleanza tra estrema sinistra e islamismo. È facile spiegare questa mutazione se leggiamo il fenomeno nazifascista con le lenti che ci fornisce Mayer, cioè come un fenomeno principalmente anticomunista e anche antisemita – o meglio come un fenomeno che ha formulato il proprio anticomunismo nei termini dell’antisemitismo per via del contesto in cui è emerso e per renderlo più comprensibile ai suoi alleati politico-ideologici. Un secolo fa c’era l’Unione Sovietica e la modernità stava portando l’ascesa del movimento operaio: era quello il nemico da combattere. Le vecchie élite, quelle che volevano combatterlo ma che non potevano farlo da sole perché screditate, condividevano una visione del mondo da ancient règime – gerarchica, comunitaria, religiosa – in cui l’antisemitismo aveva un posto importante quale marcatore delle entità aliene alla comunità. L’alleanza tra le vecchie élite e il nuovo movimento di massa nazifascista aveva portato naturalmente a unire le due cose: un’ideologia che prendeva di mira il nuovo nemico formulata nel linguaggio ideologico del vecchio mondo. Oggi, le vecchie élite screditate non sono più le aristocrazie di antico regime ma le élite liberali della “fine della Storia”. Si sono formate in un mondo in cui, dopo l’Olocausto, l’antisemitismo è il male assoluto e la protezione di Israele una ragione di stato, e la loro visione del mondo è basata sull’anticomunismo liberale post-1991. La nuova ideologia viene dunque formulata con il vocabolario di questo nuovo vecchio mondo: il nuovo nemico da combattere, le nuove orde barbare alle porte che minacciano la civiltà occidentale sono quelle del mondo ex coloniale in ascesa per la Grande convergenza, cioè il processo di progressiva perdita di preminenza economica e culturale dell’Occidente rispetto al resto del mondo, di cui il mondo islamico è il rappresentate più vicino e più familiare. Il gauchismo in questa visione del mondo funge da collante, da sprone alla mobilitazione e da scappatoia in caso di fallimento – come l’antisemitismo nella visione del mondo nazista. Gli ebrei erano la causa prima della minaccia bolscevica, perché occupavano le alte sfere del governo sovietico; la sinistra è la causa prima della minaccia islamica (ma, in realtà, la categoria di “islamo-” abbraccia tutti i popoli non bianchi) perché ha provocato l’immigrazione incontrollata, ha abbracciato il multiculturalismo, non difende i nostri valori.
Ho finito il libro di Mayer a Berlino, dove ho visitato il memoriale dell’Olocausto. Il luogo giusto, visto che lo scopo di Why Did the Heavens Not Darken? era, secondo il suo autore, quello di combattere la distorsione settaria della memoria di quell’evento storico senza precedenti, una battaglia che negli ultimi due anni è diventata particolarmente attuale. Come ha scritto Pankaj Mishra lo scorso marzo sulla London Review of Books:
“già prima di Gaza, la Shoah stava perdendo il suo posto centrale nel nostro immaginario del passato e del futuro. È vero che nessuna atrocità storica è stata commemorata in modo così ampio e completo. Ma la cultura della memoria della Shoah ha ormai accumulato una sua lunga storia. E questa storia mostra che la memoria della Shoah non è semplicemente scaturita in modo organico da ciò che è accaduto tra il 1939 e il 1945; è stata costruita, spesso in modo molto deliberato, e con specifiche finalità politiche. Di fatto, un necessario consenso sulla rilevanza universale della Shoah è stato messo a repentaglio dalle pressioni ideologiche sempre più visibili che gravano sulla sua memoria”.
È proprio ciò su cui metteva in guardia ormai più di trent’anni fa Arno Mayer, che nell’interpretazione del nazismo quale fenomeno in primis antisemita vedeva il rischio di rendere l’Olocausto una questione mistica e inspiegabile, una sorta di noumeno inaccessibile se non tramite le testimonianze delle vittime, l’estremo opposto del negazionismo. Ciò avrebbe finito per far trionfare una visione particolarista della Shoah che le avrebbe fatto perdere la sua caratteristica più importante: quella di punto di riferimento universale. La Shoah è qualcosa di unico che ha colpito gli ebrei – ma che domani potrebbe avvenire di nuovo e potrebbe colpire qualcun altro. Invece il modo in cui è stata memorializzata l’ha resa qualcosa di unico perché ha colpito gli ebrei – e l’esempio più evidente di questa distorsione è la difesa di Israele eletta a Staatrason tedesca che ha portato la Germania a sostenere in tutto e per tutto due anni di violazioni del diritto internazionale, guerre di aggressione, crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi dal governo Netanyahu in Palestina, Libano, Siria e Iran.
È una distorsione della memoria dell’Olocausto che non riguarda soltanto Israele e i suoi alleati occidentali. Negli ultimi due anni sono stati fatti, da parte di chi si oppone al genocidio israeliano a Gaza (la parte politica che, come fa giustamente notare Pankaj Mishra citando il motto di Jewish Voice for Peace, "Never again for anyone”, ha suo malgrado sulle spalle la missione di salvare la visione universalista della Shoah, perché se non lo fa lei non lo fa nessun altro) innumerevoli paragoni tra Gaza e l’Olocausto, almeno tanti quanti ne sono stati fatti da parte israeliana tra i suoi nemici del momento – Hamas, Hezbollah, l’Iran – e il nazismo. Quest’ultima è una distorsione particolarista della memoria della Shoah abbastanza palese e non può generare che sdegno in chiunque non sia un propagandista israeliano. Ma anche la prima lo è, per quanto in modo meno evidente. Ciò che sta avvenendo a Gaza con ogni probabilità è un genocidio e vi sono sicuramente similitudini tra il clima che si respira nella società israeliana contemporanea, dove gli stand-up comedian fanno spettacoli in cui scherzano sull’ammazzare i palestinesi, e quello che si doveva respirare nella Germania nazista (possiamo dirlo per il semplice fatto che osservando la prima la seconda ci diventa improvvisamente più comprensibile). Ma Gaza non è l’Olocausto – a meno di non cedere appunto alla visione particolarista che ha trasformato l’Olocausto in qualcosa di mistico e, in ultima analisi, in una categoria morale. Gaza non è ancora l’Olocausto perché lo sterminio dei palestinesi da parte israeliana è ancora non sistematico, casuale, non soggetto alla ragione strumentale, in modo simile a com’era lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti fino alla fine del 1941. E allo stesso tempo, potremmo dire, l’Olocausto è ciò che a Gaza potrebbe avvenire: il gradino successivo rispetto a ciò che sta già avvenendo. Possiamo immaginare uno scenario in cui il governo israeliano, non riuscendo a raggiungere gli obiettivi che si è dato nella sua crociata per ridisegnare il Medio Oriente, vendendo la sua Operazione Barbarossa perdere impeto, trovandosi impegnato in una guerra di lunga durata che finisce per percepire come conflitto esistenziale, sfoga la sua frustrazione sui palestinesi allo stesso modo in cui i nazisti l’hanno sfogata sugli ebrei. Non è uno scenario probabile, non fosse che per il fatto che, a differenza di Hitler, Netanyahu è riuscito facilmente a persuadere l’Occidente di essere la sua avanguardia e di star facendo i suoi interessi – “il lavoro sporco per noi”, come ha detto di recente il cancelliere tedesco Friedrich Merz. Ma non è inimmaginabile, funziona come esperimento mentale, e immaginarlo ci fa uscire dal tipo di memorializzazione dell’Olocausto che, ponendolo al di là del pensabile, lo oscura e rende possibile farne una parte dell’ideologia della guerra israeliana.
Prossimi libri in lettura: SERENA MAZZINI, Il lato oscuro dei social network (Rizzoli, 2025)