ANDRÉ MALRAUX, I conquistatori (Mondadori, 1966)
ANDRÉ MALRAUX, La Via dei Re (Adelphi, 1992)
ANDRÉ MALRAUX, La condizione umana (Bompiani, 2018)
A volte un ragazzo è mentalmente stanco, ha tante cose per la testa, troppo lavoro, un trasloco da organizzare, grosse deadline vicine, plichi di London Review of Books ancora da leggere sulla scrivania (sto recuperando adesso i numeri di agosto), una certa ansietta che gli fa decidere di iniziare subito a lavorare quando si alza la mattina invece di godersi il caffè e una mezz’ora di letture, e dunque non solo si ritrova a fine anno in pesante ritardo sulla sua Reading challenge di Goodreads, ma in più capisce anche di non aver semplicemente più spazio mentale per le letture per studio personale (che poi sono la maggior parte delle sue letture); così, a malincuore, decide di rinunciare all’idea di cominciare l’ennesimo imponente saggio accademico su qualche oscuro evento della storia cinese moderna. E di rilassarsi invece cominciando un bel romanzo ambientato durante qualche oscuro evento della storia cinese moderna. È così che mi sono messo a leggere questa trilogia di romanzi del francese André Malraux – rileggere, nel caso di La condizione umana.
Prima di tutto, qualche accenno biografico. André Malraux è uno che, dopo un’infanzia piccolo-borghese e un matrimonio con una giovane ereditiera, nel 1923, a 22 anni, dopo che i soldi di lei erano andati in fumo per investimenti finanziari sbagliati, è andato in Cambogia, che allora era parte dell’Indocina francese, col geniale piano di saccheggiare il tempio khmer di Banteay Srei, nel complesso di Angkor, per venderne i bassorilievi sul mercato nero dell’arte. Ovviamente l’hanno beccato. È stato condannato a tre anni (diventati un anno con pena sospesa in appello) e ha passato tutto il 1924 tra Phnom Penh e Saigon mentre sua moglie tornava in Francia per raccogliere sostegno e donazioni per la sua liberazione da parte dei più importanti intellettuali francesi dell’epoca. Quando è partita, Malraux le ha detto: non ti preoccupare, amore, riuscirò a diventare Gabriele D’Annunzio. Effettivamente, ci sarebbe riuscito: tornato in Europa, avrebbe sfruttato le esperienze fatte nel 1924 per scrivere una serie di romanzi “asiatici” di grande successo: I conquistatori (1928), La Via dei Re (1930) e La condizione umana (1933), il suo romanzo più famoso, con cui avrebbe vinto il premio Goncourt, che Lev Trotsky considerava uno dei suoi romanzi preferiti (buoni gusti, è anche uno dei miei) e che ha recensito usandolo come esempio per illustrare cosa aveva sbagliato il Comintern durante la rivoluzione cinese. In seguito, Malraux sarebbe diventato un compagno di strada dei comunisti, avrebbe combattuto nelle prime fasi della guerra civile spagnola e nella seconda guerra mondiale fino alla caduta della Francia, sarebbe stato catturato dalla Gestapo e sarebbe evaso di prigione, si sarebbe unito alla resistenza e si sarebbe avvicinato al generale De Gaulle, finendo per diventare il massimo intellettuale del gollismo e il suo ministro della Cultura dal 1959 al 1969.
Riassumendo, insomma, si può dire che politicamente fosse un centrista di sinistra, troppo vicino alle classi popolari per buttarsi a destra ma troppo individualista per andare coi comunisti, per cui comunque aveva una certa simpatia, soprattutto perché – e questo era qualcosa che atteneva più all’epoca in cui ha vissuto che a lui stesso – poteva facilmente usarli per quello che è stato lo scopo di tutta la sua vita: la costruzione del suo mito personale. Quando sono usciti in Europa I conquistatori e La condizione umana, entrambi ambientati in Cina durante le guerre rivoluzionarie (il primo a Canton durante lo sciopero di Canton e Hong Kong del 1925, il secondo a Shanghai durante il massacro dei comunisti del 1927), parte del loro successo è stato dovuto all’idea che fossero dei racconti dal vero, che il loro autore avesse preso parte direttamente agli eventi che raccontava nei romanzi. Sulla quarta di copertina della prima edizione di La condizione umana la biografia dell’autore diceva: "André Malraux è nato a Parigi, è stato delegato del Kuomintang per la Concincina e l’Indocina e capo della propaganda durante lo sciopero di Canton”; l’unica cosa vera era che era nato a Parigi. Per tutta la vita Malraux ha cercato di mantenere una certa zona grigia di ambiguità riguardo quanto fosse vero e quanto falso nei suoi romanzi: era stato un agente del Comintern in Cina? Forse… chissà… Così come manteneva una zona grigia di ambiguità rispetto al personaggio di Kyo Gisors, il protagonista de La condizione umana, che si diceva fosse stato modellato su Zhou Enlai: Kyo è Zhou Enlai? Forse… chissà… Zhou Enlai l’ha conosciuto di persona? Forse… chissà… C’è un po’ di Limonov in André Malraux, come carattere, ma è un Limonov paraculo, che ha paura di assumersi pienamente le conseguenze delle sue azioni e si lascia sempre aperta una strada attraverso cui battere in ritirata se le cose si mettono male; la differenza è che Limonov non ha avuto secondi fini nel cercare di trasformare la sua vita in un’opera d’arte, mentre Malraux sì: la vita di Limonov era un’opera d’arte che creava per se stesso, quella di Malraux un’opera d’arte creata per gli spettatori.
Ma veniamo ai romanzi del giovane Malraux che voleva essere D’Annunzio. Prima di tutto sgombriamo il campo da La Via dei Re, che non è altro che un resoconto deformato del viaggio di Malraux in Cambogia per rubare i bassorilievi dal tempio di Banteay Srei, modellato su Cuore di tenebra di Joseph Conrad. Il protagonista (che poi sarebbe Malraux) incontra un vecchio avventuriero che sta andando nelle regioni di senza legge tra il Siam e l’Indocina francese a cercare un altro avventuriero disperso, e gli propone una deviazione lungo la Via dei Re, un’antica strada che collegava Siam e Cambogia reclamata dalla giungla, lungo la quale, è sicuro, devono per forza sorgere templi inesplorati da saccheggiare; questo accetta perché conserva ancora il sogno di unificare le tribù locali e farle combattere contro i colonizzatori e vuole usare i proventi dell’avventura per provare a realizzarlo. Non va esattamente come previsto. Gli altri due romanzi, I conquistatori e La condizione umana, sono più omogenei tra loro – forse anche troppo, con il primo che sembra la bozza del secondo. In entrambi troviamo più o meno gli stessi personaggi: i terroristi anarchici cinesi, gli emissari russi del Comintern presso il Kuomintang, il Partito nazionalista cinese, gli europei che finiscono in mezzo quasi per caso. Ne I conquistatori l’occhio sulla vicenda è quello di un francese amico di Garin, consigliere russo del Kuomintang, e che gli fa da traduttore, ne La condizione umana il punto di vista è più diffuso e il protagonista è, appunto, il cinese Kyo Gisors, un quadro del Partito comunista in alleanza con il Kuomintang. In teoria, i tre libri sono uniti in una “trilogia della rivoluzione” ma è una strutturazione a posteriori poco convincente. Se I conquistatori e La condizione umana parlano effettivamente di rivoluzione, La Via dei Re è inserito in questo raggruppamento in modo un po’ forzato, sulla base di una suggestione di rivolta anticoloniale che non diventa mai esplicita e che non è il punto centrale del libro; più convincente sarebbe parlare di tre diversi studi su cosa vuol dire essere un essere umano, sul riconoscere o non riconoscere l’umanità degli altri e vedersi riconosciuta o non riconosciuta la propria.
A parte La Via dei Re, che il più accessibile ma anche il meno interessante dei tre, gli altri due romanzi presuppongono, per goderseli, una conoscenza molto approfondita di vicende politiche cinesi oggi molto lontane del tempo ed estremamente settoriali: la lotta politica interna la Kuomintang dopo la morte del suo fondatore Sun Yat-sen e la lotta tra Kuomintang e comunisti culminata nel massacro di Shanghai nel 1927. All’epoca era diverso: i due romanzi sono usciti pochi anni dopo i fatti di cui narrano, per quanto fossero fatti geograficamente lontani; è come se oggi uscisse un romanzo, per esempio, sulla battaglia di Aleppo o sul tentativo di colpo di stato in Turchia del 2016. Il contesto culturale non è altrettanto delineato: la Cina di Malraux è fatta di coolies, fumerie d’oppio, insegne con gli ideogrammi, banche occidentali, club per espatriati – una visione molto cliché del colonialismo dell’epoca. Ma il contesto storico-politico è rappresentato nel dettaglio e avere familiarità con questa rappresentazione dettagliata è fondamentale per capire le motivazioni, le decisioni e le azioni (l’azione è sempre ciò che interessa a Malraux) dei personaggi. Il cuore del libro sta nel suo mostrare diversi tipi di rivoluzionari, diversi modi di vivere una rivoluzione: Hong, l’anarchico a capo dei terroristi ne I conquistatori, e Chen, il terrorista anarchico che prova ad assassinare Chiang Kai-shek ne La condizione umana, sono un primo tipo di rivoluzionario: quello che vive la causa in modo egoista, come la via per una redenzione personale, per un superamento della separazione che percepisce tra sé e gli altri, e che dunque non esita a dare la vita per la causa, ma sempre con la suggestione che la causa in sé non sia ciò che conta. Garin (I conquistatori) e Kyo Gisors (La condizione umana) sono individualisti che fanno un passo oltre, che fanno proprio il motto hegeliano secondo cui la libertà sta nella comprensione della necessità, e che dunque non usano la causa come pretesto per i loro scopi personali ma vi si sottomettono e realizzano i loro scopi nella causa. Borodin (I conquistatori) e Katow (La condizione umana) appartengono infine ancora a un altro tipo umano: quello dei rivoluzionari di professione – non a caso sono entrambi bolscevichi e agenti del Comintern – per i quali l’individualità è completamente inesistente, disciolta nella forgia della rivoluzione, e tutto ciò che conta sono i movimenti delle masse e la dialettica della storia.
I due libri cinesi di Malraux, che poi in sostanza nonostante siano due romanzi differenti sono lo stesso romanzo, sono studi sul modo in cui questi tre archetipi di rivoluzionari vivono e muoiono; sul modo in cui tutti affrontano il dramma dell’incomunicabilità, dell’essere completamente tagliati fuori ciascuno dall’esistenza degli altri (viene in mente la proposizione 5.64 del Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein: “il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro”); sui modi in cui cercano di superare questa incomunicabilità che è l’ostacolo principale che ci impedisce di riconoscere gli altri. I terroristi lo fanno con l’azione, un’azione qualsiasi purché sia rilevante, definitiva; se un omicidio o un sacrificio non importa, purché nel farlo vengano visti. I rivoluzionari di professione lo fanno con la disciplina, col combattere fino alla fine accettando pienamente le conseguenze della strada che han deciso di intraprendere, della parte che si sono scelti: alla fine de La condizione umana, Katow, il vecchio bolscevico, si ritrova arrestato dai nazionalisti e in attesa di venire giustiziato, di venire bruciato vivo all’interno della caldaia di una locomotiva, e insieme a lui ci sono altri giovani rivoluzionari, a cui lui regala la sua dose di cianuro per permettergli di suicidarsi, accettando di andare al supplizio al posto loro: è così che li vede.
La Via dei Re, storia di due avventurieri, è un discorso a parte: qui l’incomunicabilità è radicale e insormontabile: nella scena centrale del romanzo i due avventurieri sono bloccati in una capanna dentro un villaggio di indigeni ostili, che li circondano e aspettano solo il tramonto per attaccarli e ucciderli, e sembra non esserci alcun modo per evitare che vada così perché manca un linguaggio comune, delle basi culturali condivise, per comunicare con loro. Alla fine si salvano perché riescono a trovare non proprio una comunicazione ma l’approssimazione di una comunicazione. La metafora della scena è: noi siamo creature di un certo tipo, loro di tutt’altro tipo; noi possiamo intenderci tra di noi, loro tra di loro, ma non noi con loro. Eppure è una metafora falsa, perché non c’è comunicabilità nemmeno tra noi: nella scena finale del libro uno dei due avventurieri sta morendo per una ferita infetta e mentre l’altro pensa a quanto sono vicini, a quello che hanno in comune, il morente pensa a quanto sono lontani e a quanto sono vicendevolmente incomprensibili. Di nuovo Wittgenstein: non esiste un linguaggio privato, ci sono cose di cui non si può parlare in alcun modo. I libri di Malraux parlano di questo. E allora cosa c’entra la rivoluzione? Malraux scriveva cento anni fa, quando la rivoluzione sembrava un futuro imminente, quando la vita collettiva era all’ordine del giorno, per cui sorgeva la domanda: come possiamo credere in una vita collettiva se non possiamo comunicare e conoscerci l’un l’altro? I personaggi di Malraux si gettano nella rivoluzione e in quel modo riescono a vedere e essere visti dagli altri. Questa è la morale di fondo, che bisogna fare un atto di fede, un salto nel vuoto. Sono ottimi materiali di propaganda.
Prossimi libri in lettura: JONATHAN CHATWIN, The Southern Tour: Deng Xiaoping and the Fight for China’s Future (Bloomsbury, 2024)