LUO GUANZHONG, Il romanzo dei Tre Regni (Luni Editrice, 2022)
Chongqing è una città al centro della Cina, nella provincia del Sichuan, anche se tecnicamente non ne fa parte perché è amministrata direttamente dal governo centrale. Durante la seconda guerra mondiale, dopo la caduta di Nanchino in mano ai giapponesi, è stata la capitale della Repubblica di Cina; oggi compare in decine di tiktok e vlog in cui viene descritta come “la città più cyberpunk della Cina”, “la città più pazza del mondo”, “la città magica in 8D” (sono tutti titoli reali, nella mia prima pagina di YouTube). A Chongqing c’è una fermata della metropolitana al quarto piano di un palazzo! A Chongqing c’è una piazza in cima a un grattacielo!! A Chongqing c’è un grattacielo orizzontale adagiato in cima a quattro grattacieli!!! Chongqing è una città il cui slogan turistico potrebbe essere quel meme usato su Twitter per commentare le immagini più strane che vengono dalla Cina, ad esempio i video in timelapse in cui maxi-infrastrutture vengono costruite in pochi giorni: incredibile things are happening in China. In Cina succedono cose incredibili. Ci sono megalopoli futuristiche che sembrano progettate da M.C. Escher e gli account ufficiali del Partito comunista condividono video di panda. Altro che le cose noiose che succedono qui da noi.
Tra il 2007 e il 2012 Chongqing è stata il feudo personale di Bo Xilai, il principale rivale politico di Xi Jinping (da un decennio residente a tempo indeterminato nel carcere di massima sicurezza di Qincheng a Pechino), che vi aveva promosso il cosiddetto “modello Chongqing”, fatto di forte crescita economica, welfare e sussidi, statalismo e campagne propagandistiche a base di canzoni maoiste, diventando il campione della “nuova sinistra” cinese. Qualche traccia del “modello Chongqing” si vede ancora, ad esempio in metropolitana, dove alle fermate ci sono bassorilievi di bronzo che mostrano scene rivoluzionarie, ma l’eredità più visibile dell’era Bo è nello skyline, venuto su dal nulla tra gli anni Duemila e gli anni Dieci. Tra i grattacieli costruiti negli anni di Bo ce n’è uno che di sera si illumina con dei messaggi pubblicitari: uno di questi è una pubblicità che invita ad arruolarsi nell’Esercito popolare di liberazione, le forze armate del Partito comunista cinese. Dice: figli di Ba, difendete il vostro paese, citando il regno di Ba, uno stato che esisteva nella regione di Chongqing nella tarda età del ferro. Nel 316 a.C., durante il Periodo degli stati combattenti, il regno di Ba si alleò con il regno di Qin per aiutarlo a conquistare il regno di Shu; dopo la vittoria, l’esercito di Qin attaccò improvvisamente Ba, catturandone il re e annettendo il regno. Era l’inizio delle guerre di unificazione cinesi, da cui nel 221 a.C. sarebbe emerso vincitore proprio lo stato di Qin con il primo imperatore Qin Shi Huang, oggi noto soprattutto per la collezione di soldatini di terracotta a grandezza naturale sepolti a difesa della sua tomba a Xi’an.
Le imprese militari di Qin erano state possibili grazie a una serie di riforme introdotte nel IV secolo a.C. dal suo primo ministro, Shang Yang, che oggi appaiono estremamente moderne: la standardizzazione di ricompense e punizioni, la loro applicazione a tutti in modo uguale (con l’importante dettaglio dell’applicazione della pena per un crimine anche a chi, essendone a conoscenza, non lo segnalasse al governo), l’introduzione della meritocrazia nell’esercito, con le promozioni e l’assegnazione delle terre ai soldati in base al comportamento in battaglia. A ispirare le riforme di Shang Yang era una filosofia politica detta legismo (法家, fajia), che prescrive una gestione burocratica, autoritaria e centralizzata dello stato. È una filosofia materialista e amorale, che pensa al mondo com’è senza preoccuparsi di come dovrebbe essere, e che ha al suo fondo una profonda sfiducia nella natura umana. Per i legisti l’ordine sociale e la stabilità sono beni fragili e quella che chiamiamo civiltà è solo una patina sottile stesa sopra un incubo di caos e violenza. Il compito del sovrano è di proteggerla a ogni costo proteggendone in primis il nucleo: la prevedibilità e l’oggettività. Ciò che distingue l’ordine dal caos è tutto lì. Da cui l’enfasi sull’uniformità della legge invece dell’arbitrio, sullo stato invece dei legami personali, sulla collettività invece dell’individuo. Il sovrano, naturalmente, si situa all’esterno di questa concezione: può essere arbitrario, può cambiare e violare la legge se le circostanze lo richiedono; è una sorta di istanza suprema che permette il funzionamento delle regole. Il legismo è stato la traduzione filosofico-politica della crisi del feudalesimo nell’antica Cina, e non a caso ha trovato la sua prima applicazione proprio nella lotta dello stato centrale contro la frammentazione feudale.
Questa lotta si è ripresentata così tante volte nella storia cinese da essere considerata alla pari di una legge di natura: “il mondo sotto il Cielo, dopo un lungo periodo di divisione, tende a unirsi; dopo un lungo periodo di unione, tende a dividersi. Così è stato sin dall’antichità” (話說天下大勢.分久必合,合久必分) è il celebre incipit del Romanzo dei Tre Regni (三国演义, Sanguo yanyi), scritto da Luo Guanzhong nel XIV secolo, che ne racconta una versione avvenuta al termine della dinastia Han, intorno al 200 d.C. La sua riproposizione novecentesca è cominciata con la rivoluzione Xinhai che nel 1911 ha abbattuto l’impero e la divisione della Cina in cricche militari in costante guerra tra loro (il cosiddetto “Periodo dei signori della guerra”) ed è finita nel 1928 con la vittoriosa spedizione del Nord del Kuomintang di Chiang Kai-Shek, ma in realtà è continuata anche dopo (i signori della guerra si erano semplicemente messi una spilletta con il sole bianco, il logo del Kuomintang, sul cappello) ed è finita davvero solo con la vittoria dei comunisti nella guerra civile nel 1949. L’ultima versione della stessa lotta, anche se in forma diversa, si è vista nell’ultimo decennio: è l’ascesa a colpi di campagne anticorruzione della “Nuova Era” di Xi Jinping, che ha ricentralizzato un paese diventato un patchwork di zone e autonomie regionali dopo 30 anni di “riforma e apertura” dengista. È sempre la stessa storia, il mondo sotto il cielo che prima si unisce e poi si divide; le riforme di Shang Yang che centralizzano e quelle di Deng Xiaoping che decentralizzano; il feudo di Bo e il regno di Ba. La Cina è una vertigine, come quella che si prova a Chongqing quando si guarda giù dalla piazza in cima al grattacielo.
Gli youtuber che vanno a Chongqing a fare i video sulla città cyberpunk e sulle cose incredibili che accadono in Cina possono guardare giù senza soffrire di vertigini, perché fanno esperienza della Cina nei loro termini, non nei suoi. La loro Cina è la Cina autoritaria del Partito comunista che si è venduto al capitalismo ed è comunista solo di nome oppure sta innovando la tradizione del socialismo realmente esistente con le sue “caratteristiche cinesi” (a seconda di come la pensano); è la Cina a cui appartiene il futuro ora che gli Stati Uniti e l’Occidente sono in declino; è la Cina che durante la pandemia costruiva ospedali in una settimana; è la Cina di piazza Tiananmen/Winnie Pooh/genocidio in Xinjiang e di Xi Jinping che è il Nuovo Mao; la Cina delle telecamere di sorveglianza ovunque e dei dissidenti che spariscono; la Cina di Xiaomi che prima faceva i telefoni e ora fa le auto sportive elettriche. Quest’immagine della Cina può essere positiva o negativa, possono vederla come una pericolosa minaccia per la democrazia e i diritti umani di cui l’Occidente è campione o come una liberatrice venuta finalmente a spezzare il dominio dell’imperialismo occidentale, ma è sempre una proiezione, dei nostri desideri come delle nostre paure.
C’è un quadro del pittore russo Gennady Mikhailovich Zykov (1931-2013), intitolato L’anno 1991, che mostra un gruppo di ominidi di fronte alle rovine di un edificio sovietico, la facciata ricoperta da un mosaico sulla conquista dello spazio. Si tratta di un commento sul crollo dell’URSS, ovviamente, e il messaggio è che che l’Unione Sovietica non è stata semplicemente uno stato o un modello economico alternativo al capitalismo, ma tutta un’altra civiltà; una scheggia di un futuro potenziale che è stata poi inghiottita dal passato, una civiltà più avanzata che è scomparsa lasciando dietro di sé delle rovine monumentali, come le piramidi egizie o maya (se oggi, dopo decenni di tagli e austerità, pensiamo ai servizi pubblici sovietici, ci sembrano anche quelli costruiti dagli alieni). Questa sensazione di trovarsi di fronte alle macerie non del passato ma del futuro è una costante nei racconti dei viaggiatori che visitano oggi l’ex Unione Sovietica: il progetto sovietico è stato costruito nel periodo di massimo splendore della modernità, quando il futuro sembrava a portata di mano; ora che la modernità è in crisi vediamo questa crisi riflessa nelle sue rovine. È per questo che percepiamo abitualmente i 74 anni dell’esistenza storica dell’URSS come un sistema chiuso. Non abbiamo grossi problemi a capire la Russia contemporanea, un normale stato capitalista autoritario come ce ne sono tanti nel mondo di oggi, mentre per capire l’URSS bisogna adottare categorie diverse, tant’è che quando esisteva subiva lo stesso trattamento che subisce oggi la Cina: era orientalizzata, era “l’impero del male” di Ronald Reagan che aizzava la ribellione del mondo, la guida della rivoluzione mondiale, oppure il faro di liberazione per il popoli colonizzati, o ancora il sistema economico del futuro (ma ancora da perfezionare) per i socialdemocratici occidentali che apprezzavano il ruolo ridistributivo dello stato ma rigettavano il partito unico.
Come l’Unione Sovietica, anche la Cina è un’altra civiltà. Ma la difficoltà di vederla nei suoi termini è ancora maggiore perché è ancora qui, per cui i piani temporali si mischiano. Non c’è una storia di 74 anni da percepire come un sistema chiuso (il prossimo 1 ottobre la Repubblica popolare cinese compirà 75 anni superando per sempre la durata dell’epoca sovietica e diventando lo stato socialista più longevo della storia) ma una stratificazione di periodi storici: un passato remoto ancora presente nelle pubblicità sui grattacieli di Chongqing che citano uno stato dell’età del ferro, in Xi Jinping che nella lista delle sue letture elenca lo Xunzi e il Libro dei Riti, in Jiang Qing che attacca Zhou Enlai in quanto confuciano (ne abbiamo già parlato), nella parola “riforme” che può farci pensare ai legisti e a Qin Shi Huang o a quelle da “approfondire in modo comprensivo” nei documenti delle riunioni del Partito comunista; un presente che scambiamo per futuro per il semplice fatto che la Cina è un luogo dove la modernità che da noi è in crisi mostra ancora il suo potenziale di emancipazione. Le auto elettriche, che cinque anni fa erano quasi inesistenti e oggi sono praticamente l’unico veicolo che circola sulle strade cinesi, la rete di ferrovie ad alta velocità che nel giro di vent’anni è arrivata a coprire completamente il paese e oggi viene usata come termine di paragone di ciò che avrebbero potuto ottenere gli Stati Uniti se non si fossero impantanati nelle loro guerre in Medio Oriente, il boom del solare e dell’eolico che rende la Cina l’unico paese tecnicamente in grado di rispettare i suoi impegni di decarbonizzazione sono tutte cose che ci lasciano a bocca aperta – ma in realtà è lo stesso effetto che ci fanno le rovine sovietiche, come l’enorme testa di Lenin sulla diga Kirov in Kirghizistan: incredibile things were happening in the Soviet Union. Solo che quelle sono appunto rovine, mentre i taxi robotici girano davvero per strada a Wuhan. Sta qui, credo, la causa della vertigine e il motivo fondamentale per cui tendiamo a vedere la Cina nei nostri termini invece che nei suoi: abbiamo difficoltà a pensarla come totalità. Ma “il vero è l’intero”, come insegna Hegel.
Il romanzo dei Tre Regni è l’opera più importante della storia della letteratura cinese. È il più importante dei quattro grandi romanzi classici cinesi (gli altri tre sono I Briganti, Il viaggio in Occidente e Il sogno della camera rossa) e il suo impatto culturale è difficile da sopravvalutare. Il numero delle cose che ha ispirato tra film, serie tv, videogiochi e via dicendo è sterminato. Ha 120 capitoli, circa 1600 pagine nell’edizione italiana, una trama estremamente complessa che si snoda lungo circa un secolo, e migliaia di personaggi. A voler sintetizzare brutalmente, la storia è questa: siamo intorno al 200 d.C. e la dinastia Han, la prima dinastia dopo l’unificazione della Cina, è debole e deve affrontare una serie di rivolte. Per sopravvivere, decentralizza; una serie di signori della guerra cominciano a reclutare eserciti e, quando la ribellione è sconfitta, la frittata è fatta: l’impero è unito solo di nome, mentre di fatto è frazionato in una serie di potentati locali che cominciano a lottare per il potere. Lui Bei, un signor nessuno lontanamente imparentato con l’imperatore, stringe un patto con altri due eroi, Guan Yu e Zhang Fei, giurando di restaurare gli Han (il romanzo si apre con il loro incontro e il loro giuramento). Dopo una serie di peripezie, i tre finiscono per diventare i leader di una fazione lealista dalla quale nasce il regno di Shu, che comprende l’attuale Chongqing. Intanto l’imperatore è diventato una marionetta nelle mani di Cao Cao, ufficialmente primo ministro, che ha sconfitto una serie di signori della guerra e ha unificato il nord della Cina proclamandosi re di Wei, mentre il generale Sun Quan ha fatto lo stesso con i territori a sud dello Yangtze e si è proclamato re di Wu. Shu, Wei e Wu sono i tre regni del titolo: la loro formazione occupa due terzi del romanzo. Ciascuno di essi è anche un archetipo di diversi modi di intendere l’autorità politica. Wu è la potenza regionale: il suo re, Sun Quan, non vuole unificare la Cina ma solo proteggere il suo territorio – l’attuale zona a sud dello Yagtze; la capitale di Wu è l’odierna Nanjing – e la sua indipendenza. Wei è la tirannia: il suo fondatore, Cao Cao, è un politico spudorato e amorale che non esita a violare alleanze e colpire per primo pur di raggiungere i suoi scopi; è il più machiavellico dei personaggi del Romanzo, fermamente convinto che il fine giustifichi i mezzi. Shu, infine, è la sovranità illuminata: Liu Bei regna con benevolenza e modestia, temperando la sua autorità assoluta con le opinioni di una cerchia di fidati consiglieri, tenendo fede alla sua parola e rifiutando di ottenere vantaggi in modo disonorevole. Shu è anche il primo regno a crollare: se la civiltà è qualcosa di fragile da proteggere con ogni mezzo necessario, non c’è spazio per la moralità di Liu Bei; dopo la sua morte il suo regno viene conquistato da Wei. In seguito il reggente di Wei, Sima Yan, fa un colpo di stato e fonda la dinastia Jin; Wu, a cui manca l’ambizione imperiale, si sottomette a Jin e la Cina è riunificata. È una storia vera.
La fama e l’importanza del libro sono legate al fatto che parla di divisione. Come sappiamo dall’incipit, il ciclo di unione e divisione è una legge di natura della storia cinese, e come ci spiegano i legisti il motivo è che la civiltà è qualcosa di tanto prezioso quanto fragile, che galleggia su un oceano di caos e violenza perché la natura umana è fondamentalmente malvagia; il fatto che nella storia cinese i periodi di divisione e movimenti di massa siano usualmente accompagnati da distruzioni di portata colossale e milioni di morti non aiuta a vedere le cose in modo più roseo. In quanto marxista il Partito comunista non può ammetterlo ma la pensa come i legisti, ed è per questo che è notoriamente ossessionato dalla stabilità. L’ansia per la frammentazione viene tenuta a bada dal Partito con metodi che piacerebbero a Shang Yang: si pone al di sopra dell’ordine per preservare l’ordine, usa l’arbitrio per proteggere la legge. Se ci sentite un’eco di Carl Schmitt è perché effettivamente c’è: per dirla con il filosofo politico cinese Jiang Shigong (non a caso uno dei massimi esperti cinesi di Schmitt) il Partito incarna la Costituzione non scritta della Cina, superiore alla sua Costituzione formale; il Partito è il sovrano che decide sullo stato d’eccezione. È per questo che studia così tanto il crollo dell’Unione Sovietica e non parla della Rivoluzione culturale (sia le ossessioni che i tabù segnalano nervi scoperti) – sono due momenti che parlano di perdita di questo ruolo da sovrano, in cui quell’oceano di caos su cui poggia la stabilità viene in superficie. Il crollo dell’URSS mostra cosa succede quando si esagera con la decentralizzazione, la Rivoluzione culturale mostra cosa succede quando sorgono movimenti di massa fuori dal controllo del Partito: il loro riflesso è visibile in controluce nella “Nuova Era” della politica cinese iniziata nel 2012. Se Bo Xilai, l’ex segretario di Partito a Chongqing, oggi sta scontando l’ergastolo è perché il successo del suo populismo di sinistra era una minaccia (sorta dall’interno) al controllo totale della sfera politica da parte del Partito; se Xi Jinping ha potuto consolidare il suo potere è stato perché il Partito ha iniziato a vedere la decentralizzazione dei decenni di “riforma e apertura” come un pericolo per la stabilità del sistema. Certo, Il romanzo dei Tre Regni non parla solo di un periodo di divisione in cui milioni di uomini muoiono come mosche e le fortune politiche sono imprevedibili; parla anche del fatto che questo periodo è destinato a finire, che la civiltà per quanto fragile è anche resiliente e risorge sempre dal caos entro cui affondano le sue fondamenta. E infatti il suo explicit riprende l’incipit ma invertendone i termini: “questo è il mondo sotto il Cielo, dopo un lungo periodo di unione, tende a dividersi; dopo un lungo periodo di divisione, tende a unirsi. Così è stato sin dall’antichità”. Il problema è che la civiltà risorge sì ma sotto altre forme, e l’impero viene riunificato ma da un’altra dinastia; magra consolazione per chi detiene il potere oggi, non dissipa il terrore per il caos e non scalfisce l’ossessione per l’ordine.
Per dirla sempre brutalmente, Il romanzo dei Tre Regni è l’equivalente cinese di un poema omerico. Alcune delle sue scene sono diventate proverbiali come per noi alcune scene dell’Iliade e il modo in cui si fa la guerra nel romanzo è più o meno simile, anche se gli eventi si svolgono qualcosa come 1400 anni dopo: eroi semidivini che imbracciano armi uniche (lo scudo di Achille ha il suo equivalente nell’alabarda del serpente di Zhang Fei) e si sfidano a duello, insultando l’avversario per costringerlo ad accettare la sfida. Combattono uno contro uno davanti ai loro eserciti, scambiandosi decine o centinaia di assalti, e se nessuno prevale sull’altro tornano indietro, si riposano e ricominciano. Gli eserciti non esistono se non come fondali, come numeri: sappiamo che questo o quel comandante aveva tremila o cinquemila uomini a disposizione, che questo o quel signore della guerra aveva messo insieme un esercito da trecentomila, cinquecentomila o settecentomila uomini per la sua campagna militare. Ma questi uomini non li vediamo mai: sono minuscoli di fronte alle dimensioni di un Guan Yu, il guerriero braccio destro di Liu Bei, a cui giustamente nel 2016 è stata dedicata una statua alta 58 metri a Jingzhou. Quando i duelli non sono scontri fisici sul campo di battaglia, sono partite a scacchi tra gli strateghi al servizio del signori della guerra, che elaborano stratagemmi per far fallire ciascuno i piani dell’altro. Il più abile di questi è Zhuge Liang, il Drago dormiente, un saggio eremita che diventa il primo ministro del regno di Shu, che aveva previsto il sorgere dei tre regni prima che si verificasse e aveva formulato un piano per consentire a Liu Bei di restaurare gli Han (il piano fallisce quando Guan Yu viene sconfitto dal regno di Wu e perde la regione di Jingzhou). Anche dopo la morte di Guan Yu, Zhang Fei e Liu Bei, Zhuge Liang – egli stesso un legista – continuerà fino alla morte a guidare Shu come reggente del figlio di quest’ultimo e a portare avanti la missione di restaurare gli Han (“non dimenticare mai la tua intenzione originaria”, 不忘初心, è uno slogan che compare di frequente nella Nuova Era di Xi Jinping).
Oggi il nome di Zhuge Liang è sinonimo intelligenza e saggezza; la statua gigante di Guan Yu è stata smantellata nel 2021. “Com’era un tempo, così è oggi, / il prode può avere grande merito, / ma il potere è dei funzionari”, afferma una poesia contenuta in uno dei primi capitoli del Romanzo dei Tre Regni. Gli eroi occupano la scena con i loro combattimenti, ma non sono loro i veri protagonisti. I nomi di Guan Yu e Zhang Fei incutono terrore nei nemici, che solo ad apprendere della loro presenza sul campo di battaglia fuggono o si arrendono, ma è grazie a Zhuge Liang se le loro gesta conseguono qualche risultato. Con le sue politiche populiste Bo Xilai diventa l’idolo della popolazione di Chongqing e della “nuova sinistra” cinese, ma il potere è degli anonimi funzionari della Commissione centrale per l’ispezione della disciplina che lo mettono sotto accusa per corruzione (si comprende di più la Nuova Era di Xi Jinping se la si vede non come l’ascesa di un “nuovo Mao” ma come uno stratagemma dei funzionari-strateghi di Zhongnanhai per prevenire l’esplosione di una rivolta populista). Fatto salvo le occasionali poesie inclusione nel testo, spesso come commento di eventi appena narrati, il linguaggio è molto formulare. Il re di Wei espone un problema militare alla sua corte, e nessuno sa risolverlo, ma ecco che dal fondo si sente una voce che dice di avere la soluzione. Il signore di Wu osserva i preparativi militari del nemico e decide di dare battaglia, ma ecco il suo stratega che lo mette in guardia che si tratta di uno strategemma. Sono scenette che si ripetono più volte, sempre uguali, e fanno da collante narrativo per le vere scene del romanzo, quelle a cui dobbiamo davvero prestare attenzione. È un andamento simile a quello che ritroviamo nei documenti del Partito o nelle dichiarazioni dei suoi funzionari: la Cina “continuerà ad approfondire in modo comprensivo le riforme”, il Partito “rimarrà fedele alla sua aspirazione originaria” e continuerà a “adattare i principii fondamentali del marxismo alle realtà specifiche della Cina e alla sua splendida cultura tradizionale” per “perseguire il ringiovanimento nazionale della nazione cinese” e “costruire una società socialista moderatamente prospera sotto ogni aspetto”, ovviamente basandosi sul marxismo-leninismo, il Pensiero di Mao Zedong, la Teoria di Deng Xiaoping, la Teoria delle Tre rappresentanze, la Prospettiva scientifica dello sviluppo e il Pensiero di Xi Jinping sul Socialismo con caratteristiche cinesi per una Nuova Era. Formule di rito che ci fanno pensare al grigiore della burocrazia socialista ma che rimandano anche alla Cina tradizionale, dove del resto la burocrazia è stata inventata, e che ci indicano tra quali righe dobbiamo leggere.
Un aspetto che colpisce del Romanzo dei Tre Regni è che raccontando eventi di un lontano passato sa raccontare il presente, perché coglie alcune strutture che sono quelle ancora oggi (è un aspetto che avevo notato anche in un’altra grande opera della letteratura cinese con il numero tre nel titolo, Il problema di tre corpi di Liu Cixin). Il punto non sono i tre regni del titolo; non sono le vicende narrate su cui si fanno film e videogiochi; non sono i personaggi diventati simboli (a Chongqing, nel museo delle Tre gole, ho visto una statua di Guan Yu). Il punto sono le strutture della realtà entro cui queste vicende si svolgono e i personaggi operano. Il filo di continuità che lega le riforme legiste e quelle dengiste, Ba e Bo, la burocrazia rossa e la burocrazia celeste sta nella struttura soggiacente alla diversità delle forme. È per questo che Il romanzo dei Tre Regni sembra poterci dare lezioni sul presente. Una di queste lezioni, la più nota, è una lezione di politica estera: le alleanze sono sempre strumentali. Nel libro, quando un signore della guerra perde il suo esercito e la sua base di potere si mette al servizio di un altro signore della guerra, quando un comandante militare viene sconfitto (o messo in condizioni in cui la sconfitta è inevitabile) si arrende e entra nelle fila del nemico. Sottomettersi a un nemico non è disonorevole, ma un riconoscimento della sua superiorità; accettare la sottomissione di un nemico non è rischioso, perché le guerre non sono combattute fino alla morte ma fino alla supremazia (non è raro che ai nemici catturati vengono sciolte le corde e vengono offerti banchetti: dimostrata la superiorità, si dimostra la benevolenza). Liu Bei passa un periodo al servizio di Cao Cao e un altro alla corte di Sun Qian: l’evento centrale del Romanzo, la battaglia delle Scogliere Rosse, vede affrontarsi Cao Cao da una parte e dall’altra Sun Qian e da Liu Bei; l’altro snodo cruciale del romanzo, la conquista di Jingzhou e la morte di Guan Yu, è l’esito di una guerra tra i due ex alleati. Nel mondo del XX secolo, i tre regni sono stati URSS, Cina e Stati Uniti: il Partito comunista cinese è stato inizialmente snobbato dai sovietici (che avrebbero trovato più volentieri un partner cinese nel Kuomintang, almeno fino al massacro di Shanghai del 1927); vinta la rivoluzione, è venuto il tempo dell’amicizia/competizione Mao-Stalin con il sostegno sovietico all’industrializzazione cinese, che ricorda molto l’amicizia/competizione sinoamericana degli ultimi decenni, con il sostegno del capitale statunitense al boom manifatturiero cinese. Morto Stalin, ecco la rottura con il “revisionismo” sovietico che ha spaccato in due il mondo comunista (le questioni teoriche erano solo un pretesto per mascherare una lotta per l’egemonia sul “Secondo mondo”); negli ultimi anni di vita di Mao, poi, è arrivato il riavvicinamento agli Stati Uniti, le visite di Nixon a Pechino, Deng Xiaoping con il cappello da cowboy e Xi Zhongxun, il padre di Xi Jinping, che stringe la mano a Topolino a Disneyland nel 1980. Oggi è il tempo dell’amicizia con la Russia putiniana, “senza limiti” stando alle formule ufficiali ma in realtà con limiti (reciproci) d’interesse.
Questa collezione di repentini cambiamenti nelle alleanze e capovolgimenti di fronte, con amici che diventano nemici e poi amici di nuovo, prigionieri che catturano il loro carceriere, vincitori che vengono sconfitti da chi hanno appena sconfitto e via dicendo è, in una parola, dialettica. Come scrive Friedrich Engels nell’Anti-Dühring (1877), anch’esso citato nella lista delle letture di Xi Jinping: “i due poli di un'opposizione, il positivo e il negativo, sono tanto inseparabili l'uno dall'altro quanto contrapposti e malgrado tutta la loro contrarietà si compenetrano vicendevolmente”. La visione del Romanzo dei Tre Regni è profondamente dialettica, sin dall’incipit e dall’explicit: l’impero si divide e si riunisce, si riunisce e si divide. Nel momento in cui si divide sappiamo già che si riunirà, nel momento in cui viene unificato sappiamo già prima o poi si frammenterà; non ha senso discutere se venga prima la divisione o l’unità. Non solo: è il movimento complessivo del suo dividersi e riunirsi che, come l’ispirare ed espirare della respirazione, lo tiene in vita come impero. Lo stesso vale per la Cina contemporanea, in cui l’eredità socialista e l’economia politica capitalista attuale sono in tensione dialettica tra loro, contrapposte e inseparabili, contrarie e compenetrate: un partito organizzato sul centralismo leninista pianifica l’anarchia del mercato, presiede a un’accumulazione capitalista che inasprisce le disuguaglianze mentre trae la sua legittimità dalla redistribuzione. La Cina contemporanea può esistere solo nel fragile equilibrio tra i poli della contraddizione, ed è per questo che il Partito comunista è legista e ossessionato dalla stabilità – non come assenza di moto, ma come due spinte opposte che si cancellano.
La contraddizione è la fonte di ogni vita, ciò che non contiene contraddizioni interne è ciò che è morto: è questo il succo di Sulla contraddizione (1937), l’opera più famosa di un personaggio che sembra fare collante tra tutti i discorsi fatti fin qui, e la cui immagine fa in effetti da collante tra tutte le complessità della Cina contemporanea – Mao Zedong. Il romanzo dei Tre Regni era il suo libro preferito, il Partito comunista cinese l’organizzazione politica che ha fondato e che ha portato al potere, la civiltà sovietica l’Altro a cui si è ispirato nella costruzione di una Cina che fosse “nuova”, cioè “altra” da tutto ciò che c’era stato prima; allo stesso tempo, è difficile non pensare alla sua opera come a un Liu Bei che tenta di restaurare gli Han dopo un periodo di tumulti. Secondo Mao ci sono due possibili concezioni del mondo, la dialettica e la metafisica, il vedere ogni cosa come in costante mutamento oppure il vederla come immutabile. Delle due, la dialettica è quella vera, e lo dimostra il fatto che la loro stessa storia sia un processo dialettico: la dialettica è nata prima, sia in Cina che in Europa, ma “la dialettica degli antichi aveva qualcosa di spontaneo, di primitivo” e per la sua debolezza è stata in seguito sostituita dalla metafisica, il modo di pensare del feudalesimo “che si esprime nelle parole: Il cielo è immutabile e immutabile è anche il Dao”; sono stati Hegel prima e Marx e Engels poi a superare questa negazione. Il successo che il marxismo è riuscito ad avere in Cina è forse dovuto al suo poter essere percepito allo stesso tempo come un prodotto della modernità occidentale e come qualcosa di vicino a un certo modo di pensare cinese tradizionale, un ritorno al passato e una quadratura del cerchio; i rivoluzionari cinesi d’inizio Novecento si trovavano di fronte un problema simile a quello affrontato da Shang Yang, ma modernizzato, e a una possibile soluzione simile al legismo, ma dialetticamente superiore. La cesura radicale che c’è tra noi e i nostri antichi ci ha impedito di percepirlo allo stesso modo e situarlo in una tradizione, legandone le sorti a quelle della modernità. Prima ancora che un’aggiunta posticcia, le “caratteristiche cinesi” stanno forse in potenza nella sua natura. L’impero si unisce, si divide e si unisce ancora; la dialettica viene sostituita dalla metafisica e poi torna come materialismo dialettico; il marxismo continuamente aggiornato con nuovi “pensieri” e “teorie” dai nomi sempre più complicati e burocratici, trasformato in una filosofia per funzionari-letterati, forse è più vitale del marxismo come corpus teorico immutabile, cristallizzato nel Diamat sovietico e, proprio perché immutabile, morto insieme alla modernità che l’ha generato? Scommetto che Xi Jinping risponderebbe di sì, che la cosa importante è “non dimenticare mai la tua intenzione originaria”. L’ironia storica è che l’intenzione originaria dei partiti comunisti altro non è se non la socialdemocrazia.
Prossimi libri in lettura: SOMDEEP SEN, Decolonizzare la Palestina (Meltemi 2023); PAOLA CARIDI, Hamas. Dalla resistenza al regime (Feltrinelli, 2023)